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Addio al “Pittore della Tenda” Emanuele Modica: l’immortale bellezza della lotta alla mafia

4 ' di lettura

Una vita intera consacrata a sfidare la mafia attraverso la sua arte. Il pittore Emanuele Modica avrebbe festeggiato il suo ottantasettesimo compleanno pochi giorni fa ma,

dopo essere stato ricoverato presso l’ospedale di Parma in condizioni critiche, si è spento lo scorso 8 novembre.

Nato nel 1936 a Palermo da una famiglia contadina di sette figli, la sua giovane esistenza viene sconvolta nel 1961 dall’uccisione del padre per mano mafiosa: un delitto consumato negli anni del “sacco di Palermo”, quando Cosa Nostra e politica si rendono protagoniste della speculazione edilizia che violenta il paesaggio del capoluogo siciliano, divorando la Conca d’oro e le meravigliose dimore in stile liberty. A far gola alle cosche è anche il piccolo appezzamento di terra – dove ora sorge il carcere Pagliarelli – che forniva l’unica fonte di sostentamento alla famiglia Modica: il rifiuto di cederlo segna la sorte del capofamiglia. Emanuele sprofonda in una depressione profondissima, immagina anche di dover cercare vendetta, ma grazie alla solidarietà popolare suscitata dalla pubblicazione degli articoli relativi all’omicidio, gli viene offerto un impiego come barista. Spetta adesso a lui, il figlio maschio più grande, prendersi cura della famiglia. Emanuele non sa ancora di essere un artista, anche se ha già iniziato a dipingere. Disegna fin da bambino, prendendo tra le mani i tizzoni di carbone per tracciare figure sulle pareti ammuffite delle stalle. A lavoro, invece, si serve delle macchie di caffè per abbozzare degli schizzi sugli scontrini dei clienti: dietro il bancone alcune sue tele, che raffigurano lo strazio del suo animo, attirano l’attenzione di un gallerista che gli propone di allestire una mostra. I suoi quadri riscuotono l’apprezzamento da parte dei critici, ma ad Emanuele questo non basta: lui ha bisogno che le sue opere vengano viste dalla gente di ogni estrazione sociale, non soltanto dagli appassionati d’arte.

Nasce così, da questo inferno interiore e dal bisogno viscerale di giustizia, la storia del “Pittore della Tenda”. “Una notte – ha raccontato davanti a migliaia di persone nel corso dei decenni – sognai mio padre, seduto davanti a un cavalletto che dipingeva. Io ero alle sue spalle e lo guardavo stupito. Ma come, pensavo, tu contadino che hai maneggiato sempre la zappa, ti metti a dipingere? Lui si è girato, mi ha guardato e ha alzato il pennello in aria, come a dire: lascia stare i fucili, il pennello è la tua vera arma”. Emanuele Modica, infatti, decide che sfiderà la mafia a colpi di bellezza, che per denunciare la barbarie e l’omertà, per prendere a calci chi gli ha sottratto per sempre l’abbraccio del padre, saranno le sue opere ad andare tra i palermitani e non viceversa. E così monta una tenda in piazza Politeama dentro la quale espone la bellezza, mentre all’esterno, sui cartelli, dà sfogo alla potenza della sua denuncia. È da quel momento, nel 1969, che in Emanuele Modica l’uomo, l’artista, il ribelle iniziano a fondersi: l’arte diventa battaglia contro la mafia, la vita il suo capolavoro rivoluzionario. “Se non fossi diventato un pittore – ha ammesso più volte – sarei diventato un assassino”.

La sua “Tenda” si trasforma in una mostra itinerante che lo conduce con coraggio e incoscienza, in anni in cui soltanto parlare apertamente di mafia può tramutarsi in una condanna a morte, tra le strade e le piazze della Sicilia. Colleziona tante minacce, ma con la sua testardaggine dona i colori della speranza ai siciliani onesti. La sua non è arte accomodante, che va incontro ai gusti comuni, tutt’altro. Sulle sue tele dipinge cavalli in fuga dall’orrore, disperatamente alla rincorsa della libertà, tentacoli che avvolgono uomini con la bocca serrata, gli occhi spalancati, sconvolti dal terrore, vedove pietrificate dal dolore: “Mi devo attenere alla mia esperienza di vita: non ti posso fare il fiorellino o la barca sul mare se la mia esperienza è stata ben diversa”, obietta a chi fa fatica ad apprezzare il suo stile. Tuttavia, tra i suoi sostenitori ci sono anche personaggi illustri della cultura dell’epoca. Diviene amico, ad esempio, del poeta Ignazio Buttitta e di Leonardo Sciascia, il quale definisce la sua pittura “autentica e forte”. Poi però matura la consapevolezza di dover abbandonare l’isola per portare la sua testimonianza altrove, per scuotere le coscienze dei cittadini di altre regioni.

È una frattura importante quella con la sua Sicilia: una ferita che sarà ricucita, in parte, soltanto molti anni dopo. Il suo nomadismo è inarrestabile. Dalla Campania, dove conoscerà la sua futura moglie, Marisa, si spinge fino alle Valle d’Aosta. Ovunque la sua tenda si colloca tra le persone, parla ai loro occhi, scava nei cuori, si apre ai più fragili. Accoglie soprattutto i giovani in un’epoca in cui l’eroina, con la quale le mafie hanno inondato le città, ne uccide a migliaia: dolori diversi, quelli del pittore e quelli di chi sta annichilendo i propri giorni, si incontrano e parlano la stessa lingua. Emanuele Modica però non è sempre in viaggio, mette anche radici. Nel parmense, precisamente a Langhirano. Ed è qui che, dopo aver anche conseguito l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana, si stabilisce definitivamente nel 2001. Poco prima un malore l’aveva sorpreso mentre esponeva a Bergamo: un evento che mette fine all’esperienza delle tende in giro per l’Italia. Nella canonica della chiesa di Manzano crea la sua Casa Museo, dove i visitatori possono ammirare pitture, sculture, un’emozionante installazione che raffigura la scena dell’omicidio del padre. La sua tenda si fa pietra.

Sulla sua vita è stato realizzato un film, “Il pittore della tenda” (https://vimeo.com/260816284), diretto dal regista Renato Lisanti e presentato in anteprima a Biografilm Festival nel 2018: un’opera riconosciuta di interesse culturale dalla Direzione generale Cinema del Mibact che ha ottenuto premi e riconoscimenti in Italia e all’estero. All’interno del documentario, il racconto della storia di Emanuele Modica si intreccia con quello del viaggio da Langhirano a Palermo e dell’allestimento dell’ultima tenda dell’artista nella sua città natale. In una scena del film, viene immortalato mentre con la sua barca e i capelli bianchissimi, gli occhi di cielo, ritocca con cura alcune sue opere disegnate sui tronchi degli alberi. È arte esposta alle intemperie, nascosta, quasi impossibile da ammirare, ma Emanuele Modica afferma che il suo pubblico sono anche “gli uccelli, le lucertole, le formiche: sono tutte creature di Dio. Più bella della natura cosa c’è? Io non ho frequentato scuole d’arte, è stata lei la mia maestra. E perché non dare questa riconoscenza agli alberi, ai nidi agli uccelli?”. Perché oltre ad essere un pittore, Emanuele Modica era anche un uomo di grandissima spiritualità, un contadino poeta che, usando parole umili, sapeva avvolgere il cuore ed elevarlo alla grandezza. “Bisogna ritoccarlo ogni due anni – dice, riferito al volto di Cristo che sta restaurando – e lo farò finché sarò in vita. Poi, quando non ci sarò più io, rimarrà lo spirito, dentro l’albero”.

Salvo Taranto

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