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Presa a calci nel parcheggio di uno stabilmente industriale di Fossò, Giulia Cecchettin cerca di difendersi dal suo assassino gridando, con tutta la forza che le rimane: “Filippo, mi fai male”. Filippo non si ferma, il bravo ragazzo prosegue colpendola
con venti coltellate al collo e al volto, per poi dirigersi con la sua macchina, una Fiat Grande Punto nera, nei pressi del Lago di Barcis, dove abbandona il corpo di Giulia con le sue mani, le stesse che l’hanno appena uccisa. Le mani che Turetta, prima di rimetterle sul volante per darsi alla fuga repentina – alla volta dell’Austria e poi della Germania, dove viene fermato dalla polizia tedesca per essersi accostato a “fari spenti” in corsia d’emergenza – utilizza per coprire il corpo di Giulia con dei sacchi neri dell’immondizia. Dietro quest’ultimo gesto non si cela l’intenzione romanzata di “dare dignità” al corpo tumefatto da ferite che lui stesso gli ha inferto ma la ragione stessa per cui un’atrocità di questo genere è stata compiuta: la cultura del possesso, per cui il corpo, i sogni, la vita e il respiro di una donna appartengono non a lei ma solo ed unicamente al sesso opposto, a un uomo.
Turetta è lucido, le sue ricerche Google, “kit di sopravvivenza” o “sentieri di montagna”, portano alla luce il suo movente: se Giulia non è sua, allora non sarà di nessun altro, soprattutto, non sarà nemmeno di se stessa. Giulia Cecchettin, ventiduenne piena di sogni, una scuola di disegno ad attenderla subito dopo la Laurea in “Ingegneria biomedica”, che avrebbe dovuto conseguire qualche giorno dopo la sua scomparsa, è la centocinquesima vittima di femminicidio in un anno. Un’emergenza, quella del femminicidio, in cui le vittime sono tali solo perché nate donne, come spiega perfettamente Michela Murgia, attivista venuta a mancare nell’agosto di quest’anno, “femminicidio non indica il sesso della persona morta, indica il motivo per cui è stata uccisa”. Se le vittime sono le donne, per la sola colpa di essere nate donne in una società patriarcale, ove il maschilismo non solo è ampiamente diffuso ma anche largamente accettato, i colpevoli non sono “mostri” e a ricordarcelo è lo stesso padre di Filippo, Nicola Turetta, il quale alle telecamere ripete “Mio figlio non è un mostro”.
Nicola Turetta ha ragione, perché Filippo Turetta non è un “mostro”, i mostri non esistono e persino i bambini, arrivati ad una certa età, capiscono autonomamente che queste figure, che per anni hanno dominato le pagine delle loro favole preferite, in realtà, sono frutto solo della fantasia. Le cose vanno chiamate con il loro nome e Turetta non è un mostro, chiamarlo in tal modo deresponsabilizza un’intera categoria: quella degli uomini. È questo, infatti, Turetta, un uomo, il figlio sano del patriarcato, riprendendo le parole di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che da giorni, con il suo dolore immenso, impartisce lezioni di femminismo e violenza di genere a chi di queste cose preferisce esserne testimone con omertà e l’accusa, piuttosto, di essere “inquietante” a causa del suo stile fuori dalle righe e anticonvenzionale.
Guardate cosa è stato capace di fare, però, il vostro bravo ragazzo. Il bravo ragazzo che, se con una mano infornava biscotti, con l’altra cingeva ben stretto il collo di Giulia, espressione questa il cui passo da triste metafora – Giulia, infatti, raccontava alla nonna, perché di confidarsi con la sorella aveva troppa paura, che quel ragazzo la opprimeva, la soffocava – a crudele realtà è stato fin troppo breve. Chiamare Turetta “mostro” significa deresponsabilizzare gli uomini, i quali non si guarderanno mai allo specchio pensando che, forse, c’è un po’ di Filippo Turetta in ognuno di loro. C’è un po’ di Filippo Turetta in ognuno di loro quando…
Quando preferiscono lasciarsi andare alle battutacce a sfondo sessuale dopo il calcetto, perché non farlo significherebbe essere dei pappamolle. Quando gioiscono per l’arrivo di un figlio maschio (che crescono ripetendogli che è giusto essere gelosi della mamma) e, al contrario, gettano tutto per aria quando sanno che a nascere sarà una femmina. Quando ti chiedono “ma quanto sei nervosa oggi, ma hai il ciclo per caso? Quando ti dicono che sei paranoica ad avere paura di prendere il treno da sola, che loro si fanno una bella dormita e in un’ora sono a destinazione. Quando ti dicono che non ha alcun senso avere paura dei mezzi di trasporto quando il sole è sparito già da un po’. Quando fanno cat – calling dal finestrino o non fanno assolutamente niente per impedirlo, frenando i loro amici. Quando ti proibiscono di andare in discoteca, di frequentare uomini di sesso maschile, di uscire con le amiche, di indossare un abito a detta loro “troppo succinto”. Quando ti chiamano “puttana” per una foto, sempre a detta loro, “troppo provocante”. Quando accettano silenziosamente che, solo perché donna, tu percepisca uno stipendio inferiore – anche se sei nettamente più competente di loro – perché tanto non sai guidare, figurati lavorare. Quando ti proibiscono di essere indipendente, ci pensano loro alla gestione dei soldi, tanto tu sei un’incapace. Quando ti ignorano mentre vieni molestata, nonostante li cerchi disperatamente con lo sguardo che implora aiuto, e se ti stuprano è sicuramente colpa tua, hai fatto qualcosa tu, ti sei fatta sicuramente fraintendere, hai detto sì e poi ti sei tirata indietro, non puoi farlo, non puoi dire “no” ad atto già iniziato. Quando ti dicono che non farai mai strada o carriera. Quando ti dicono che nessuno ti ama, oltre a loro. Quando ti alzano le mani ma ti dicono che è l’ultima volta, che loro non sono come Filippo Turetta, sei stata tu, hai esagerato. È colpa tua.
In una società patriarcale, però, ove il maschilismo e la cultura del possesso sono, non solo ampiamente diffusi ma anche largamente accettati, Giulia Cecchettin continua ad essere ricordata con fotografie che la ritraggono con l’uomo che l’ha uccisa. Sebbene sul suo profilo Instagram, la più importante app di social network, Giulia abbia condiviso ben 43 post pubblici (non è così limitata, dunque, la scelta di riportare un’immagine in cui appare sola, in compagnia solo del suo splendido sorriso che lascia trasparire la bellissima anima che aveva), i media continuano a favorire la diffusione di fotografie che la ritraggono insieme all’uomo che si è arrogato il diritto di mettere la parola fine sulla sua giovane vita. Insieme all’uomo che si è arrogato il diritto di mettere la parola fine sulla sua giovane vita solo perché donna, solo perché aveva portato a termine il percorso universitario prima di lui, solo perché immaginava un futuro in cui lui non c’era più.
In una società patriarcale, però, ove il maschilismo e la cultura del possesso sono, non solo ampiamente diffusi ma anche largamente accettati, nessun uomo si guarda allo specchio chiedendosi se in loro ci sia un po’ di Filippo Turetta, del bravo ragazzo, dello studente universitario, del giovane di buona famiglia, il presunto assassino che giocava a pallavolo e aveva frequentato il catechismo. Nessun uomo si guarda allo specchio chiedendosi: “C’è un po’ di Filippo Turetta in me? Cosa posso fare per dare il mio contributo ad una lotta che le donne si trovano a dover combattere a causa mia, oltre a ripetere che non siamo tutti uguali? Che le donne si toccano solo con un fiore? Perché chiaramente, questa mia liturgia, fino ad ora non ha funzionato”. In una società patriarcale e ampiamente maschilista, nessun uomo si guarda allo specchio chiedendosi se c’è un po’ di Filippo Turetta in lui e che cosa può fare di concreto per contribuire a un cambiamento, che è necessario avvenga e anche al più presto possibile, in campo educativo, sentimentale, sessuale, ma, soprattutto, legislativo.
È necessario che si smetta di ripetere a pappagallo quella liturgia, “non tutti gli uomini” perché, se non sono tutti gli uomini, sono tutte le donne. Tutte le donne sono Giulia Cecchettin, tutte le donne sono state Giulia Cecchettin, e tutte le donne saranno Giulia Cecchettin, di cui è importante gridare il nome a gran voce, perché ciò che ci distingue da lei non è il carattere, non è la forza, non è niente, è solo e semplicemente: fortuna. Il pericolo e la paura degli uomini è reale e concreta e Turetta (come molti prima di lui e molti altri dopo di lui, purtroppo) ne è la rappresentazione: Filippo non è un mostro, ma è la prova che il male è banale. Turetta è un bravo ragazzo ma è il vostro bravo ragazzo, non il mio e non il nostro.
Silvia La Iacona
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