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Un mese fa è scomparso il “padre della biodiversità”, il biologo Thomas Lovejoy. Con i suoi studi lascia un’enorme eredità. Dalla messa in guardia sullo stato di salute dell’Amazzonia all’importanza della diversità biologica, fino alla triste stima dei tassi di estinzione globale.
Biologo, ecologista, professore universitario, presidente e fondatore della ONG Amazon Biodiversity Center. E ancora: ricercatore senior della United Nations Foundation, ideatore della serie tv Nature e “servitore” all’interno del consiglio ambientale e scientifico durante i mandati di Reagan, Bush e Clinton. La vita di Thomas Lovejoy non sembra fosse monotona. Infatti, il suo contributo nei confronti dell’ambiente, i suoi progetti e i suoi studi sono stati, dagli anni ’80 fino a pochi mesi prima della sua scomparsa, dei veri e propri spartiacque per la società.
L’Amazzonia, il tarlo fisso del biologo
Insieme alle 30mila specie di piante e alle 30 milioni di specie animali ospitate, dal 1965 Lovejoy è stato un frequentatore assiduo dell’Amazzonia. Mentre studiava per il dottorato di ricerca in biologia, decise di visitare il polmone verde del pianeta. Entrò in contatto con la natura e la studiò sul campo, il più da vicino possibile. Nonostante in quegli anni – ’60 e ’70 – non venisse data particolare attenzione alle tematiche del Sud del mondo, Lovejoy decise che invece doveva essere proprio quello il punto di partenza – la prova che gli ingranaggi della natura e le sue regole non stavano più funzionando come avrebbero dovuto. Il suo obiettivo era quello di far capire che gli equilibri di questo territorio influenzano e determinano le sorti del futuro e dell’intero “sistema climatico continentale“.
L’Amazzonia divenne così il fulcro, il cuore pulsante delle sue ricerche. Il risultato è stato quello di aver dedicato la maggior parte della sua vita – più di quarant’anni – all’Amazzonia. Come una fissazione, questa sua dedizione sembrava voler restituire alla foresta ciò che negli anni le era stato sottratto.
«Questo fallimento sfida tutti i nostri sforzi per il clima perché, a meno che le foreste non rimangano in piedi, il mondo non conterrà mai il riscaldamento globale»
Lo scorso novembre, dopo i primi giorni della Cop26 – la Conferenza di Glasgow – , Lovejoy, in un articolo sul NYT firmato insieme all’economista John Reid, aveva affermato che quello che si sta facendo non basta. Gli studiosi suggeriscono azioni concrete e che puntino alla sostenibilità. Un esempio? Riconoscere una volta per tutte i diritti territoriali delle popolazioni indigene che abitano queste terre, “ampliare le aree forestali protette ed evitare strade e industrie nelle foreste ancora intatte”.
Un filo rosso collega l’Amazzonia alla perdita di biodiversità: la deforestazione. Ogni anno enormi aree boschive sono cancellate, sia per far spazio alle coltivazioni di cereali – che diventeranno poi i mangimi per sfamare gli animali allevati intensivamente -, sia per far sì che alberi, arbusti e vegetazione non intralcino il pascolo degli stessi. Il fenomeno di deforestazione più rilevante si verifica nelle zone equatoriali e tropicali della Terra. La Fao, nel 2006, ha stimato che il 70% delle terre deforestate dell’Amazzonia è stato trasformato in pascoli bovini e che la produzione di mangime occupa una buona parte del restante 30%. Ogni anno, milioni di ettari di questi boschi vengono abbattuti, accorciando la vita di questo ecosistema.
A tutto ciò si aggiungono gli incendi sempre più frequenti delle foreste e delle aree boschive – e sempre più impattanti e disastrosi. L’equazione è presto risolta: aumentano anche le emissioni di gas serra (CO2) che, di conseguenza, favoriscono l’aumento della temperatura globale e lo scongelamento del permafrost.
I “debt-for nature swaps” e la stima dei tassi di estinzione globale
Nel 1973 Lovejoy propose un meccanismo per risolvere un problema duplice che interessa tutt’ora l’economia e l’ambiente. Riguarderebbe alcuni paesi indebitati economicamente e con un ambiente in gravi condizioni: l’idea dello scienziato è “scontare” parte del debito estero di un Paese in cambio di investimenti nella conservazione naturale. Perciò vennero creati dei prodotti ex novo per acquistare i titoli di debito da parte di Paesi, ma anche di banche e società d’investimento.
L’ONU ha affermato che i “debt-for nature swaps” finora sono stati strumenti efficaci per il miglioramento dei debiti economici. Dall’altro lato però, purtroppo, non hanno contribuito in maniera significativa alla nascita di progetti concreti e reali di riqualifica ambientale.
Nel 1980 inoltre Lovejoy stimò che entro l’inizio del ventunesimo secolo un numero elevato di specie sarebbe andato irrimediabilmente perso. È il preludio di quella che alcuni studiosi chiamano sesta estinzione di massa. Fu così uno dei primi scienziati a comprendere che il trinomio distruzione degli habitat, inquinamento e cambiamento climatico assume un ruolo importante nella perdita di biodiversità.
Purtroppo, il passare degli anni non ha smentito questa teoria. Nel Living Planet Report del WWF del 2020, attraverso il Living Planet Index – cioè l’indice del pianeta vivente, un indicatore dello stato della diversità biologica globale rispetto alle tendenze nelle popolazioni di specie vertebrate di tutto il mondo –, emerge che le specie sono diminuite rapidamente dal 1970 a oggi. Quelle terrestri hanno subito un calo del 40%, quelle d’acqua dolce dell’84% e le specie marine del 35%.
La biodiversità: bellezza e fragilità della natura
Il numero, la varietà e la variabilità delle specie – e come queste cambiano da un ambiente all’altro nel corso del tempo – possono essere riassunte in un’unica parola: biodiversità.
Sul sito dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), sono descritte le tre tipologie di diversità che caratterizzano la biodiversità secondo la Convenzione ONU sulla Diversità Biologica: la diversità di ecosistema, di specie e genetica. La prima definisce «il numero e l’abbondanza degli habitat, delle comunità viventi e degli ecosistemi all’interno dei quali i diversi organismi vivono e si evolvono». La diversità di specie, invece, «comprende la ricchezza di specie, misurabile in termini di numero delle stesse specie presenti in una determinata zona, o di frequenza delle specie, cioè la loro rarità o abbondanza in un territorio o in un habitat». E, infine, quella genetica «definisce la differenza dei geni all’interno di una determinata specie; essa corrisponde quindi alla totalità del patrimonio genetico a cui contribuiscono tutti gli organismi che popolano la Terra».
L’importanza della biodiversità risiede nella sua ricchezza, che garantisce all’ambiente la vita e la convivenza di milioni di specie differenti. Se l’ecosistema è in salute, però, lo si dà per scontato, in quanto l’equilibrio dinamico della biosfera è la normalità e non desta attenzione. In un articolo pubblicato sul sito del Parlamento si legge che «le piante convertono energia dal sole rendendola disponibile ad altre forme di vita. I batteri e altri organismi viventi scompongono la materia organica in nutrienti che forniscono alle piante un terreno sano in cui crescere». Inoltre, gli impollinatori sono essenziali per la riproduzione stessa delle piante, in quanto ci garantiscono la produzione di cibo; mentre le piante e gli oceani hanno il ruolo di assorbire le emissioni di anidride carbonica e, in questo senso, anche il ciclo dell’acqua è strettamente dipendente dagli organismi viventi.
Se invece la maggior parte delle specie scomparisse e l’ecosistema non fosse più in salute? Non possiamo sapere cosa comporterebbe un’estinzione di grande portata per l’ecosistema e per l’essere umano. Ciò che attualmente conosciamo è che è la varietà permette che tutto l’ecosistema funzioni perfettamente. La biodiversità, in poche parole, è la chiave: permette di respirare aria pulita, di avere a disposizione acqua potabile, di coltivare terreni prosperi e impollinati.
Ma l’attuale stato delle cose – la fotografia dell’ambiente e della biodiversità – l’ha scattato nel 2019 l’ONU: quasi un milione di specie rischia di estinguersi entro pochi decenni. Perciò, sono necessarie azioni urgenti per proteggere le foreste e gli oceani e c’è bisogno di imporre cambiamenti radicali nella produzione e nel consumo di cibo.
Le cause principali di declino e della perdita di biodiversità coincidono, ancora una volta, con le azioni compiute dall’uomo – con la sua impronta ambientale. Il cambiamento climatico, l’inquinamento, le modifiche del suolo – erosione, disboscamento, monoculture intensive e urbanizzazione. E ancora: lo sfruttamento diretto per mezzo di caccia e pesca e le specie esotiche invasive.
Queste pratiche ormai non destano troppo l’attenzione. Sono problemi che sembrano diventati un ritornello scomodo e fastidioso, un tormentone che tutti ripetono ma che nessuno sembra comprendere veramente. In fondo siamo tutti figli dell’epoca dell’Antropocene. E lo era anche Lovejoy, che ha lasciato un’eredità intellettuale e scientifica pesante ma, allo stesso tempo, coraggiosa. Saremo in grado di accettarla e portarla avanti, o la ignoreremo?
Sara Ausilio
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