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Sharbat Gula, la celebre «Ragazza afghana» fotografata da Steve McCurry nel 1984, è arrivata in Italia grazie all’intervento del nostro Governo. La sua storia è lunga decenni di tormenti e difficoltà.
Sharbat Gula, la donna afghana più famosa al mondo, è ora in Italia. Il suo nome, forse, non dirà molto a tutti, ma il suo volto, in particolare quello della lei dodicenne, è impresso nella memoria di ognuno di noi. Sharbat Gula, infatti, è la celebre Ragazza afghana immortalata dal fotoreporter USA Steve McCurry, la protagonista di una delle fotografie più iconiche dell’epoca moderna. Una di quelle che non si limitano a documentare la Storia, ma che contribuiscono a farla.
La foto, apparsa sulla copertina del numero di giugno 1985 del National Geographic, è stata scattata da McCurry nel novembre 1984 a Nasir Bagh, un campo profughi allestito nei pressi di Peshawar (Pakistan) in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Una volta pubblicata, la sua potenza fu subito evidente: i colori, la luce e lo sguardo penetrante della ragazza conquistarono il mondo, facendo di Sharbat Gula la «Monnalisa del XX secolo». A distanza di quasi 40 anni, la Ragazza afghana di McCurry è ancora l’immagine universale dei profughi di tutto il mondo, nonché il simbolo delle guerre che, allora come oggi, affliggono l’Afghanistan.
Lo scatto: i due minuti che cambiarono la vita di McCurry
Nella sua lunga carriera da fotografo documentarista, Steve McCurry ha realizzato lavori unici e indimenticabili, che vanno dai numerosi reportage in India, Nepal e Afghanistan alle terribili immagini del crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center. Ma la fotografia con cui è passato e rimarrà alla Storia è proprio quella della Ragazza afghana.
La storia di questo scatto è raccontata dallo stesso fotoreporter nel libro Il mondo di Steve McCurry: in una mattina di novembre del 1984 McCurry, inviato in Pakistan dal National Geographic per documentare la situazione dei campi profughi della zona, sentì delle voci provenire da una tenda. In quella che era una scuola di fortuna alcune ragazze, fra cui Sharbat Gula, stavano facendo lezione. Non appena la vide individuò in lei il soggetto perfetto ma, riconoscendo una certa timidezza – dettata anche dalla vergogna per il suo velo bruciato e rovinato –, iniziò a fotografare le altre ragazze. In questo modo le diede il tempo di abituarsi alla sua presenza e all’idea di porsi davanti a una macchina fotografica, un oggetto che non aveva mai visto.
Quando arrivò il momento, tutto avvenne in maniera rapida e naturale: nel giro di un paio di minuti McCurry realizzò alcuni scatti e se ne andò con in tasca un rullino contenente quella che qualche mese dopo sarebbe diventata la sua fotografia più iconica: la Ragazza afghana, da alcuni chiamata anche Ragazza afghana col velo o Ragazza dagli occhi verdi.
Per quanto incredibile, la Ragazza afghana ha rischiato di non finire sulla copertina del National Geographic
Al suo posto, infatti, fu inizialmente scelta un’altra fotografia di Sharbat Gula (a sinistra nell’immagine più sotto) che la ritraeva con un’espressione più timida e meno inquietante, ma sicuramente meno evocativa e di minore impatto. Fortunatamente, però, l’allora direttore del National Geographic Wilbur «Bill» Garrett, che aveva l’abitudine di verificare sempre le seconde scelte dei propri capi redattori, vide la Ragazza afghana e non ebbe dubbi su quale foto sarebbe andata in copertina. Il resto, come si suol dire, è storia.
Col senno di poi è facile dire che Garrett abbia preso la decisione migliore, ma la Ragazza afghana è oggettivamente una fotografia impeccabile: il contrasto tra i colori caldi dei capelli e del velo e quelli freddi della tenda sullo sfondo, del vestito che si intravede sotto al velo e soprattutto degli occhi della ragazza è semplicemente perfetto. La vera forza dello scatto, però, sta tutta nello sguardo di Sharbat Gula: magnetico e misterioso, spaventato ma al tempo stesso fiero, accusatorio ma anche sofferente. McCurry dirà che nei suoi occhi ognuno può vedere quello che vuole, ma forse la definizione migliore di ciò che è racchiuso nel suo sguardo la si trova in uno dei più celebri aforismi del filosofo Nietzsche: «se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà te […] e nessuno è abbastanza forte da poterne sostenere lo sguardo senza esserne soggiogato e trasformato».
Fino al 2002, la Ragazza afghana rimase la sconosciuta più famosa al mondo
Questo perché per 17 anni nessuno – nemmeno McCurry, che al momento dello scatto non pensò, o forse non poté, chiedere alla ragazza chi fosse – seppe dare un nome al volto che appariva nella mente di ogni persona al solo sentire la parola «Afghanistan».
Le cose cambiarono nel 2002 quando, in seguito all’11 settembre, l’Afghanistan – che nel frattempo aveva visto la fuga dei sovietici e l’arrivo al potere dei talebani – venne invaso dagli Stati Uniti. Assieme ai militari e ai reporter, nel Paese arrivarono anche McCurry e una troupe del National Geographic, intenzionati a (ri)trovare la Ragazza afghana. Dopo mesi di ricerche, complicate anche dalle numerose false piste e candidature di aspiranti Sharbat Gula dovute alla ricompensa promessa dagli americani in cambio di informazioni, la Ragazza afghana fu identificata e, per la seconda volta in vita sua, fu fotografata da McCurry e finì sulla copertina del National Geographic.
Dopo 17 anni, il volto che tutto il mondo conosceva aveva finalmente un nome, Sharbat Gula – che tradotto significa «ragazza fiore d’acqua dolce» – e una storia: dopo aver perso i genitori in un bombardamento sovietico, era fuggita con le sorelle e la nonna in Pakistan, dove era stata fotografata da McCurry; tornata in Afghanistan, si era sposata ed era diventata madre di quattro figli. Con la guerra nuovamente in corso, si era ritrovata ancora una volta costretta a fuggire. In quel momento rincontra McCurry – che definirà l’incontro un misto di indifferenza, imbarazzo e curiosità – e per la prima volta vede la fotografia che, a sua insaputa e senza che ne comprendesse veramente il motivo, l’aveva resa un’icona a livello mondiale.
I suoi tormenti, però, non erano finiti
Dopo aver perso un figlio e il marito di epatite C – malattia di cui soffre anche lei – fuggì nuovamente in Pakistan. Qui, nel 2016 fu arrestata per falsificazione di documenti – una pratica molto diffusa fra coloro che cercano di ricostruirsi una vita in quel Paese – diventando suo malgrado protagonista e pedina di una guerra diplomatica tra Pakistan e Afghanistan: il Pakistan voleva allontanarla dal Paese per scoraggiare l’arrivo di altri rifugiati nel proprio territorio; l’Afghanistan, invece, voleva usarla per dimostrare che, anche grazie all’arrivo degli americani, tutti i profughi fuggiti dal Paese sarebbero potuti tranquillamente tornare nel «nuovo Afghanistan».
Dopo una lunga trattativa, per Sharbat Gula la vicenda si concluse con una detenzione di 12 giorni, il pagamento di una pena pecuniaria e il suo ritorno in Afghanistan. Un Paese, però, in cui lei stessa dichiarerà di non aver mai voluto tornare, e dove l’allora Presidente Ashraf Ghani in persona le consegnò, in una sfarzosa cerimonia, le chiavi di un appartamento a Kabul.
Il buio a Kabul
Il 16 agosto 2021 i talebani hanno riconquistato il potere in Afghanistan. Da quel momento tutto è crollato: negozi chiusi, strade vuote e cartelloni pubblicitari rappresentanti corpi femminili strappati via o imbiancati. In pochi giorni il volto di un Paese già segnato da conflitti bellici è mutato davanti agli occhi di chi ci viveva.
A Kabul, quel giorno, il tempo si è fermato, facendo vivere un violento flashback. Negli occhi della gente solo desolazione e rabbia dovute alla mancanza di aiuti da parte delle truppe occidentali che hanno lasciato il Paese. Il 30 agosto l’Occidente ha di fatto consegnato – per non dire abbandonato – centinaia di migliaia di vite nelle mani degli stessi estremisti che aveva cacciato vent’anni prima. Da quel momento l’Afghanistan ha visto solo restrizioni e censure inflitte alla sua popolazione. A soffrirne di più sono le donne – per le quali è previsto, tra le altre cose, il divieto di apparire in televisione e l’obbligo di indossare il burqa. A loro sostegno, molte associazioni hanno contribuito a finanziare voli e corridoi umanitari per favorire la fuga di chi, come Sharbat Gula, nelle proprie case non si sentiva più al sicuro.
L’arrivo in Italia
Dopo tanto rumore è seguito un autunno di apparente silenzio da parte degli Stati occidentali. Poi la mossa italiana: il 25 novembre Sharbat Gula è atterrata a Roma. A renderlo noto è stato Palazzo Chigi, che si è preso il merito dell’organizzazione e del trasferimento della donna avvenuto tramite il programma di evacuazione dei cittadini afghani e il piano di accoglienza e integrazione del Governo. L’Italia si è detta orgogliosa per l’operazione e si è inchinata con piacere al plauso internazionale ricevuto per l’impresa attuata.
Dopo una vita passata tra le polverose strade di un Paese costantemente invaso, tormentato e devastato dalla brutalità umana, Sharbat Gula – dei cui spostamenti non si hanno notizie successive al suo arrivo in Italia – può tirare un sospiro di sollievo.
E poco importa capire se il suo sia stato un salvataggio egocentrico, dovuto al mero interesse dell’Italia di mostrarsi come uno Stato buono e solidale, o un’impresa umanitaria – anche se è triste constatare la facilità con cui un Paese possa strumentalizzare la vicenda di una donna che, come migliaia di altre, era solamente in cerca di un rifugio, e non di visibilità. Adesso, per la prima volta in vita sua, la Ragazza afghana ha la possibilità di sentirsi davvero al sicuro. E forse, anche senza finire sulla copertina di una rivista , potrà finalmente voltare pagina.
Giulia Battista, Laura Lipari
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