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Il silenzio delle piazze e dei parchi italiani, svuotati a causa del lockdown, è stato spezzato, negli ultimi mesi, dal clamore di quelle che sono state definite “maxi risse”. Gruppi di decine di giovani, spesso minorenni, riunitisi per scontri che, nei peggiori casi, hanno causato feriti ed arresti. L’allarme è stato lanciato dalle principali testate nazionali la cui attenzione è stata subito catturata da quello che sembrava un fenomeno incomprensibile. Numerosi i tentativi di dare una spiegazione: dall’allarmismo riguardo la pericolosità dei Social alla riflessione sulla pressione del lockdown. Tutti con un’unica domanda: cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?
I fatti
Il primo allarme è stato lanciato agli inizi di dicembre, con la rissa al Pincio (Roma), che ha immediatamente generato scalpore per la sua portata. Da quel singolo evento le maxi risse sembrano essersi diffuse a macchia d’olio: Milano, Venezia, Parma e Lucca sono solo alcune fra le città interessate. Il già significativo numero di scontri diventa ancora più preoccupante se si considerano quelli sfuggiti all’attenzione mediatica. Una cosa è chiara: questi fatti sono parte di un fenomeno più grande che non sembra avere intenzione di fermarsi. Il più recente risale allo scorso sabato e coinvolge nuovamente la capitale. In una Piazza del Popolo affollata, una decina di giovani si sono scontrati e le forze dell’ordine hanno effettuato cinque fermi, tutti minorenni. Ad assistere allo spettacolo, come spesso accade, un centinaio di coetanei.
Difficile comprendere le ragioni personali dei ragazzi coinvolti, ma è possibile individuare alcune caratteristiche comuni a questi eventi, che hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di un trend. Infatti, tutti gli eventi sono stati immortalati, spesso dagli stessi giovani coinvolti, tramite cellulare. I video ripresi a distanza ravvicinata e poi diventati virali, sono stati fondamentali per il lavoro di indagine delle forze dell’ordine. Ciò che preoccupa maggiormente è però quello che le immagini sembrano trasmettere: una sorta di euforia generale, l’atto di violenza che viene visto come forma di intrattenimento, come normalità.
A peggiorare la situazione si aggiunge la presenza, in molti casi, di coltelli, catene, mazze e armi varie, che fanno ipotizzare finali ben più tragici di quelli verificatisi grazie all’intervento della polizia. Ad Ancona, ad esempio, la rissa del 9 gennaio, seppure sventata in tempo, ha portato al ritrovamento di un coltello nascosto sotto lo zerbino di un locale. Tutto ciò, avvenuto nel contesto della pandemia che se da un lato ha fatto sì che le risse fossero individuate più velocemente nelle altrimenti silenziose notti italiane, dall’altro induce a chiedersi cosa possa portare degli adolescenti a violare il coprifuoco esponendosi a simili rischi.
Tutta colpa dei social?
È indubbio: i social hanno svolto un ruolo significativo nell’organizzazione degli scontri e nella diffusione del fenomeno. La prima rissa romana aveva attirato la curiosità di molti per essere stata pianificata dai ragazzi tramite un gruppo WhatsApp, poi scoperto dagli investigatori. Infatti, è proprio tramite l’infiltrazione sui social che la polizia è riuscita a sventare alcune risse successive. Dall’opinione pubblica è partita prontamente una denuncia nei confronti dell’apparente negligenza delle piattaforme, nelle quali circolavano i video virali delle risse.
Si è così riacceso il dibattito sulla sicurezza di Internet, specialmente per i minori. Un allarme che risulta come l’ennesimo di una lunga lista. Al centro delle accuse si trova sempre più spesso TikTok, app per la quale le controversie sembrano essere all’ordine del giorno. Osservata con sguardo critico in quanto luogo di “challenge” virali, a volte pericolose, come quella associata alla recente morte della bambina palermitana di 10 anni e del bambino pugliese di 9. Il tutto a causa della rinomata capacità di attirare un pubblico di giovanissimi, grazie alla personalizzazione dei contenuti e ai video dal breve formato che portano l’utente a restare incollato allo schermo per ore.
I canali Telegram
Di questa lista nera fa parte da tempo Telegram, app di messaggistica istantanea distintasi per la possibilità di chattare in gruppi (o “canali”) di migliaia di persone, anonimamente, senza condividere il proprio numero di telefono. Le chat, a differenza della più comune WhatsApp, sono segrete in quanto salvate direttamente sul server privato della piattaforma. All’interno è possibile scambiarsi immagini, video e file di qualsiasi tipo fino a 2 GB. Altre caratteristiche distintive sono la possibilità di distruggere i messaggi senza lasciare traccia, sia manualmente che tramite l’impostazione di un timer (funzione introdotta da Snapchat).
Queste peculiarità hanno fatto il successo di Telegram, sotto la bandiera della difesa della privacy, tanto contestata alle altre piattaforme. Allo stesso tempo però, l’hanno resa terreno fertile per lo scambio di materiale illegale in maniera anonima e difficilmente tracciabile. Dallo scambio di immagini intime senza consenso, alla pedopornografia, ai gruppi suprematisti bianchi, fino ai terrapiattisti e ora anche i video di questi scontri. Insomma, se qualcosa di illegale o pericoloso avviene online, è probabile che sia su Telegram.
Una breve ricerca
A denunciare il coinvolgimento dell’app è stato anche il giornale Open.online, portando alla luce un canale dedicato allo scambio di questi contenuti: @Risse_Italiane, dove video e immagini erano persino a pagamento. L’account è attualmente introvabile, probabilmente chiuso in seguito alla segnalazione, ma basta digitare “risseitaliane” sulla barra di ricerca di qualsiasi social per trovare numerosi account dedicati al tema, alcuni con tanto di logo e dicitura “Official” (ufficiale). Si parte da Instagram, dove le forti restrizioni del regolamento non permettono lo scambio di contenuti di quel tipo. Poi TikTok, dove rimane visibile solo un video di due adolescenti che si azzuffano mentre un compagno urla istruzioni da allenatore di pugilato in pieno stile Fight Club. Nei video è presente il marchio della destinazione finale: il canale Telegram @risse italiane. Il canale è ovviamente privato, ma il link di reindirizzamento è facilmente raggiungibile tramite altri gruppi pubblici; il più grande fra questi conta oltre 15.000 membri.
L’intera ricerca occupa poco più di dieci minuti e dà una chiara idea della portata del fenomeno. Eppure, nulla di nuovo per i nativi digitali e chi frequenta assiduamente il web. Open.online ha infatti ricordato la fascinazione per immagini cruente, ai limiti della legalità, che ha da sempre interessato alcuni angoli della rete, come il famigerato Rotten.com. “Tutti elementi che fanno parte dell’estetica gore, una categoria di immagini che mischia il gusto dei proibito con la voglia di vedere fino a che limite può spingersi il nostro senso del disgusto.” Trattasi di “un sottobosco vecchio quanto è vecchio il web. – ricorda il giornale – La prima versione di Rotten.com è andata online alle fine del 1996, quasi un anno prima che Larry Page e Sergey Brin registrassero il dominio google.com.”
Eppure, al di là dei dibattiti riguardanti la responsabilità di piattaforme, famiglie e istituzioni, i contenuti violenti sul web non sono diventati merce di scambio ieri e i meccanismi impliciti che regolano la rete non sono cambiati di molto negli ultimi anni. Quindi cosa ha portato a tutto questo?
C’è altro dietro?
Molto più logico ipotizzare che quanto stia avvenendo online sia il riflesso di un problema di fondo, piuttosto che una sua causa. Un disagio più grande che ha trovato nel fenomeno delle risse la sua manifestazione fisica.
A tal proposito un’interessante riflessione del quotidiano Il Foglio che, raccogliendo le voci di alcuni ragazzi coinvolti, si è focalizzato sul loro desiderio di popolarità. Il concetto di virale, infatti, è un filo conduttore riconoscibile ogni qual volta il web compare nelle pagine di cronaca. Oramai Like, visualizzazioni, commenti e followers sono innegabilmente le unità di misura di valutazione degli utenti online. A tal punto che, piattaforme strettamente legate a quei numeri, come Instagram, hanno deciso di oscurarli. Dell’effetto euforico causato da un proprio contenuto che diventa virale, specialmente nei giovanissimi, si è ampiamente discusso.
A ciò si unisce l’elemento del branco. Il senso di appartenenza generato da eventi di aggregazione come questi è enorme. La maggior parte dei giovani immortalati dai video non partecipa, assiste, fa il tifo. Persino gli spostamenti per arrivare al punto di incontro avvengono in gruppo. È forse in questo squadrismo la chiave del fenomeno. Il 2020 è probabilmente stato l’anno peggiore per essere un adolescente. Una situazione che viene confermata anche da Federico Bianchi, psicoterapeuta e direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), per Dire.it. “Abbiamo detto più volte che tenere i ragazzi chiusi in casa avrebbe potuto portare a due tipi di situazioni diverse si sono verificate entrambe: da una parte c’è il grande problema dei ragazzi che hanno paura di uscire di casa, i ritirati sociali, e dall’altra ci sono quelli che escono ma lo fanno in modo aggressivo”. Un’armata di giovani frustrati che cercano di “scaricare in violenza quello che provano dentro casa, tutte le difficoltà accumulate che non sono state affrontate in modo sano”.
Anche la tanto discussa DAD ha avuto un ruolo. Inutile negarlo, l’organizzazione dell’istruzione nell’anno ormai passato è stata disastrosa. Nei casi migliori si è parlato di ingressi in classe a scaglioni, in fasce d’età e orari che cambiavano alla settimana. L’assenza della scuola non ha rappresentato solamente una mancanza accademica. Fra i banchi e nei corridoi i giovani apprendono a coesistere, si incontrano, scontrano e, soprattutto, sono in grado di manifestare le proprie frustrazioni sotto il controllo vigile, ma non intrusivo, del corpo docente. Non si può pretendere che il ruolo educativo della scuola termini con una videolezione.
Tutto questo, e molto altro, è mancato ai nostri giovani. La necessità di prestare maggiore attenzione a ciò che avviene online è importante. Tuttavia, se l’obbiettivo è quello di prevenire piuttosto che curare, sarà necessario restituire ai ragazzi degli spazi dove poter costruire, invece che distruggere.
Federica Morichetti
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