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La norma che seppellisce i feti calpesta i diritti delle donne

3 ' di lettura

Nelle scorse settimane la foto e il racconto di Marta Loi sono diventati virali su Facebook. La donna aveva riportato la propria esperienza, che è la stessa di quella di molte donne che non conoscono il destino riservato ai loro feti, una volta praticato l’aborto. La storia dei cimiteri dei feti è travagliata, attraversata da manifestazioni e proteste da parte di donne inascoltate dalla politica. Marta Loi racconta di aver scoperto un campo presso il cimitero Flaminio a Roma dove vengono sepolti i “prodotti del concepimento” o “feti”. La sepoltura avviene senza il consenso delle madri, ma su sola richiesta dell’ASL. I feti giacciono in tombe singole, su ognuna delle quali ci sono una croce di legno ed una targa, apposte da AMA-Cimiteri Capitolini, su cui è riportato il nome della madre e un nome di fantasia per il feto.

Cosa dice la norma

Eppure una norma esiste: l’articolo 7 del Regolamento di polizia mortuaria del 1990 distingue fra tre possibilità in caso di aborto: per i bimbi nati morti che hanno più di 28 settimane è prevista sempre la sepoltura; per i “prodotti abortivi” che hanno tra le 20 e le 28 settimane e per i feti che abbiano 28 settimane di età intrauterina spetta il seppellimento tramite permessi rilasciati dall’unità sanitaria; infine vi sono i “prodotti del concepimento”, che hanno età inferiore a 20 settimane e vengono considerati rifiuti speciali ospedalieri, non destinati alla sepoltura, ma alla termodistruzione. In genere la prassi vuole che per i “prodotti abortivi” e per i “prodotti del concepimento” i parenti siano tenuti a presentare entro 24 ore domanda di seppellimento, cosa che spesso non avviene perché le istituzioni ospedaliere non informano la famiglia della normativa vigente.

La sepoltura dei feti senza il consenso delle loro madri è possibile grazie soprattutto a dei Protocolli d’intesa tra associazioni, comuni e ospedali, che consentono ad associazioni cattoliche e pro life di circolare per gli ospedali a raccogliere feti in contenitori speciali biodegradabili. In questo modo le aziende ospedaliere risparmiano sui costi di autorizzazioni al trasporto, seppellimento, contenitori e manutenzione dell’area; mentre il comune mette a disposizione gratuitamente l’area e gli operatori cimiteriali. Non sappiamo di preciso quanti siano i cimiteri dei feti in Italia oggi. Jennifer Guerra, su “The Vision”, ha cercato di farne una mappatura, arrivando a un totale di trentasette cimiteri – sette dei quali solo in Veneto, governato dalla Lega da venticinque anni. E in sedici città sono state avanzate mozioni comunali anti abortiste – tra le quali realtà come Verona, Treviso, Trento, ma anche Venezia e Genova.

Nessuna procedura prevede il coinvolgimento della donna

La donna non viene coinvolta in alcuna parte della procedura. Nessuna norma sulla privacy e nessun diritto costituzionale la difendono. Tra le questioni da affrontare, queste sono le più importanti. Ogni donna è libera di scegliere se portare avanti o meno una gravidanza. Una donna può ricorrere all’aborto per svariati motivi e il diritto di decidere del destino del feto dovrebbe appartenerle. Sottoporre a obbligo la procedura, in modo peraltro così automatico, appare come una violenza. La cronaca riporta altri aspetti gelidi della vicenda: il nome della madre viene riportato sulla tomba del feto, comunicando così l’identità di chi ha praticato l’aborto. Michela Murgia ha commentato su “L’Espresso” che sarebbe molto più interessante leggere sulle croci le motivazioni che hanno condotto le donne a non diventare madri: differenza di genere, precarietà, paura, stupro. Sarebbe una rappresentazione più veritiera.

Fonte: Illustrazione di Mauro Biani su Repubblica

Il fallimento della Legge 194

Nell’Italia del 2020 l’Inquisizione esiste ancora e tenta di boicottare la legge 194. Dopo 42 anni dall’approvazione del diritto d’aborto, molte donne si trovano a dover lottare per vederlo riconosciuto: il 70% dei ginecologhi sono obiettori di coscienza, così come il 30% degli anestesisti e il 42% del personale non medico. Solo a Roma i medici non obiettori sono cinque, come riporta il settimanale “l’Espresso”. Sempre “L’Espresso” ha lanciato una campagna online per raccogliere le testimonianze delle donne che hanno affrontato un aborto, si possono trovare le storie digitando #innomeditutte. Tra gli episodi riportati leggiamo che molto spesso un aborto si trasforma in una tortura: medici che non somministrano l’epidurale, donne costrette a far uscire il feto sulla tazza di un water. È stato fatto qualche passo avanti, ma ne mancano ancora molti perché le donne possano esercitare liberamente la propria libertà di scelta e il diritto all’autodeterminazione. La classe politica non può continuare a ignorare questo problema e non può pensare di portare il Paese indietro di 50 anni ai danni delle donne e del loro corpo.

Erica Marconato

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