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Giulia. E noi

5 ' di lettura

C’è qualcosa che ha senso dire o scrivere dopo la morte di Giulia?

Contemporaneamente tutti e tutte vorremmo tacere, e allo stesso tempo vorremmo trovare parole utili. Allora, ecco qui

i tentativi del nostro Corso di Giornalismo laboratoriale e le parole di chi il Corso lo ha già concluso. Parole per Giulia. E per noi.

Giulia e le sue sorelle

Cristina Battioni

Cara Giulia ti scrivo ora , sperando che tu sia già molto lontana . Lontana da un tempo che si conferma pasticcio di antiche e nuove ignoranze sentimentali e intellettuali . Ti scrivo ora , immaginandoti tra le braccia della tua mamma , al caldo , al sicuro .

Potevo essere tua madre . Nessuno lo è. Tutte potremmo essere tue sorelle , minori , maggiori , sempiterne . Sorelle di ingiustizia , figlie, mogli, compagne, madri di una mascolinità mai insegnata e mai appresa .

Giulia, essere dolci , essere femminili, essere buone e responsabili e’ un pericolo . Pensare di arginare il male con il bene è un utopia in questo piccolo quartiere chiamato “ Italia “ .

Dovevi laureati giovedì , almeno un giorno da gioia dopo tanto lavoro … e invece no .

No come per tutte le “ sorelle di Giulia “ che per onestà intellettuale , amore per i propri figli o la propria famiglia , sono state zitte e non hanno urlato .

No come per tutte le sorelle di Giulia che “ per non creare problemi” hanno cercato di risolvere da sole le loro tragedie e paure .

No come per tutte quelle Donne che , piccole o grandi, non sono riuscite a scappare da “ chiunque “ cercasse di negare loro un futuro .

Siamo tutte sorelle di Giulia oggi , dovremmo esserlo . E dovremmo essere in grado di difenderci e sostenerci . Ma non è così .

Ed è questa la crepa culturale . Il maschilismo latente nella nebbia della nostra cultura non ci permette di unirci .

Divise nel tentativo di dimostrare qualcosa o nella paura di mostrare qualcosa . Ma a chi ? Agli uomini ? E dove sono ? Dove ?

Dolce Giulia , dalle braccia di tua madre guardaci e perdonaci tutti e tutte , anche le sorelle che oggi hai in più .

Perdonaci perché bastava insegnarti che il bene non vince . Non ora e non qui .

Tu vincerai in un mondo che , almeno spero, sia pulito e limpido , come te .

Se l’urgenza non diventa urgente

Ilaria Reitano

Oggi si parla di Giulia, domani si parlerà di Giulia, il 25 novembre si parlerà di Giulia e delle altre 104 vittime di femminicidio, stando ai numeri di quest’anno.

Oggi ogni cosa parla di Giulia, perché Giulia è stata uccisa. Tuttavia è lecito chiedersi se tra due settimane, l’urgenza che oggi appare impellente, sarà ancora così urgente. I ragazzi che alla domanda lasceresti la tua fidanzata andare sola in discoteca rispondono no, spariranno dopo che per giorni avremo parlato di Giulia, di Filippo, del patriarcato, della necessità di istituire l’ora di educazione all’affettività?

Esisteranno. Esisteranno se non saremo in grado di trasformare l’urgenza contingente in materia talmente urgente da avere una data a partire dalla quale le cose cambieranno.

Se da oggi il numero antiviolenza tappezza le città, se le leader di opposizione e maggioranza si siedono al tavolo e studiano un piano da attuare – perché il piano c’è e si discute in Parlamento dal ’75 – se da oggi i centri antiviolenza hanno più fondi e gli insegnanti sono liberi di parlare di affettività e di sesso – dopo un’adeguata preparazione in merito – se da oggi si stampano pamphet contro la violenza di genere, come suggerito da Nordio, e si istituiscono i dodici incontri pensati da Valditara nelle scuole.

Se oggi, non è oggi, domani i dodici incontri diventano due e i pamphlet non si stampano perché la materia sarà troppo controversa. I fondi per i centri vengono destinati a combattere i rave party e le leader, insieme a Cortellesi, vedranno il film, le fanno i complimenti dimenticandosi del perché si erano trovate nella stessa stanza.

Domani chi guarderà ancora verso Giulia, dopo giorni di talk show con uomini che parlano di patriarcato, di Instagram che alterna contenuto antiviolenza a quello beauty, di Twitter che ospita ministri che usano i “se”?

Se oggi bruciamo tutto, domani ci accorgeremo che la fiamma si è spenta e che ha bruciato solo un angolo. E di quell’angolo non ci sarà più memoria.

Quindi manteniamo le cose così per come sono. Ma alimentiamo la memoria delle donne che non hanno più un domani, che è stato sottratto loro da padri, fratelli e mariti violenti. Alimentiamo i dubbi, chiediamoci cosa sia un comportamento violento, identifichiamolo, parliamone. Smettiamo di assimilare la donna a categoria, perché la donna è genere umano. Chiediamoci perché giudichiamo l’abbigliamento. Chiediamoci perché dubitiamo dell’autorevolezza di un’esperta. Chiediamoci perché condanniamo una leader politica che balla e si diverte.

Non bruciamo niente perché se bruciamo tutto, questa urgenza si spegne e prenderà il suo posto qualcos’altro. E così sarà come aver ucciso Giulia due volte, perché della sua morte ricorderemo solo quella mobilitazione necessaria per riempire i palinsesti per qualche giorno e quello che ci sembrava tanto urgente apparirà sfocato dietro a battute dopo il calcetto e alle risatine dopo frasi come “qui mettiamoci una donna, così sembriamo aperti”.

Rabbia per l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin

Silvia Colelli

Sale a centocinque il numero delle donne vittime di femminicidio in Italia nell’ultimo anno. Una violenza che si compie ogni tre giorni, secondo i numeri, e senza contare i casi che in qualche modo, nel nostro paese, finiscono nel dimenticatoio tra la routine si è creata nel sentirne parlare e la lecita paura di denunciarli da parte delle vittime.

La storia si è ripetuta ancora una volta: Giulia Cecchettin aveva solo 22 anni, le speranze e gli obbiettivi di una ragazza giovanissima che stava aspettando di laurearsi e che è stata strappata troppo presto al resto del mondo dall’ex-fidanzato Filippo Turetta. Il ragazzo le aveva chiesto di andare a cena insieme la sera dell’11 novembre e Giulia non è mai più rientrata a casa. Subito la notizia ha fatto il giro delle piattaforme social grazie ai post che la sorella della vittima ha condiviso in cerca di aiuto e di notizie; la ricerca dei due, durata una settimana e disseminata di indizi che lasciavano pensare allo scenario più doloroso e indignante di tutti, non ha rivelato nessuna svolta positiva. Il cadavere della ragazza, uccisa a coltellate dopo l’aggressione di Turetta ripresa dalle fotocamere di videosorveglianza di uno stabilimento a Venezia, è stato ritrovato sabato mattina presso il Lago di Barcis, vicino Pordenone, dove era stato lasciato scivolare lungo un pendio in seguito all’abbandono sul ciglio della strada. L’assassino è poi fuggito a bordo dell’auto di cui le Forze dell’Ordine hanno seguito le tracce per sette giorni e ha lasciato l’Italia addossandosi, quindi, un mandato di cattura europeo. È di domenica mattina, invece, la notizia del suo arresto in Germania a cui seguirà un processo con l’accusa di omicidio premeditato.

Sui social, in seguito al ritrovamento del cadavere, si è scatenata l’ira di milioni di donne che scrivono “Ce lo sentivamo tutte, dal primo momento in cui abbiamo saputo della sparizione” e “Questa volta speravamo sarebbe andata diversamente”. Parole forti che denunciano una verità umiliante e dolorosa: in Italia, se una donna sparisce, subisce violenze o viene uccisa la notizia non fa scalpore come episodio sporadico ma costituisce “soltanto” un altro nome da aggiungere ad un’infinita lista di cui tutte hanno paura di far parte prima o poi. L’uomo che uccide in Italia non è un mostro fuori controllo ma un individuo che si adegua al sistema che prevarica qualsiasi altro ordine culturale, gestito e tramandato in ogni angolo della società dall’alto al basso. Ne sono esempio i politici maschilisti e colpevoli di violenza e i ragazzini che fin dalle scuole medie sono abituati ad utilizzare linguaggio misogino senza conseguenze.

La “violenza di Stato” di cui ha parlato ai giornali e alle telecamere nelle ultime ore Elena Cecchettin, sorella della vittima, costituisce un attacco lecito e morale ad un paese nel quale la cultura dello stupro non si risolve solo nella morte di centinaia di vittime o nella violenza di genere. Si parla, invece, di rappresentazioni troppo spesso errate che i media italiani propongono dopo ogni caso di questo tipo e che entrano a far parte di uno schema ben preciso in cui, mentre gli assassini vengono deresponsabilizzati, le vittime finiscono per assumersi parte della colpa dell’accaduto. Scrivere di Filippo Turetta e di tutti gli altri colpevoli di femminicidio come “brave persone, dolci, che non farebbero mai male ad una mosca” rende complici di questa strage anche chi ha invece il compito di informare, responsabilizzare e diffondere le notizie nell’intero paese. Dall’altra parte, addossare parte della responsabilità alle donne che “non sarebbero dovute andare all’ultimo appuntamento, non avrebbero dovuto essere fuori di casa a quell’ora, non avrebbero dovuto fidarsi” contribuisce a creare una narrativa per cui le vittime non dovrebbero far altro che limitarsi nelle loro scelte di vita per non cadere in trappola.

La vicenda degli ultimi giorni, i dati sui femminicidi in Italia e le parole dei familiari della più recente vittima, hanno dato manforte alle voci femminili che ora più che mai denunciano la banalità dei minuti di silenzio nelle scuole, delle giornate dedicate alla lotta contro la violenza di genere e delle borse di studio intitolate a donne di cui le istituzioni si dimenticheranno tra poche settimane. Occorre, quindi, la vera e propria distruzione del sistema patriarcale su cui l’Italia appoggia le sue fondamenta e la costruzione di una cultura nuova che metta al primo posto la parità, la dignità di ogni individuo e l’uguaglianza sociale.

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