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Pinelli: quella finestra è ancora aperta

3 ' di lettura

Non si sono dati abbastanza risalto e merito all’iniziativa che la Gazzetta dello sport ha dedicato alla “Storia dei grandi segreti d’Italia”. Una collana inconsueta, a ben pensarci, per un quotidiano votato allo sport. Questa settimana, in particolare,

in edicola troverete “La morte di Pinelli”, di Giacomo Pellizzari.

Come già per la maggior parte dei libri già usciti (in tutto saranno 70 e la nuova serie spazia dalla trattativa stato-mafia alla Terra dei fuochi passando per il crac Parmalat) il volumetto è di facile lettura ma è costruito in modo concreto ed efficace. Alla fine, anche partendo da zero, il lettore esce certamente più consapevole di queste pagine importanti della storia recente del nostro Paese.

E quella della morte di Giuseppe Pinelli è una pagina fondamentale, che tutti dovremmo conoscere. Una storia tragica, che altre tragedie porta con sè a monte (la strage di Piazza Fontana) e a valle (il vile attentato omicida al commissario Calabresi). L’inizio della “strategia della tensione”, ovvero del periodo in cui a fronte delle proteste e conquiste sociali (dal Sessantotto alle vertenze sindacali dell’autunno caldo 1969), ci fu una reazione subdola e violenta tesa a portare l’Italia a situazioni simili a quelle che si erano create con il golpe militare in Grecia, appoggiato dall’estrema destra ellenica e invidiato dalle destre italiche.

La combinata e sciagurata azione di terroristi di destra, servizi segreti e altri pezzi dello stato (magari con trascorsi fascisti come il questore di Milano Marcello Guida, al quale Sandro Pertini rifiutò di stringere la mano) portò a un raffinato e sanguinoso disegno. Fin dalla primavera del 1969 vennero messi in atto attentati dimostrativi, che poi risultarono effettuati da gruppi neofascisti, ma nel frattempo indagini, depistaggi e infiltrazioni cercarono di condurre i sospetti – anche dell’opinione pubblica – verso gli anarchici.

Quando poi ci fu l’attentato più sanguinoso, in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre, il disegno si completò con una sfacciata disinformazione giudiziaria e mediatica: venne arrestato l’anarchico Pietro Valpreda, indicandolo come esecutore materiale, e venne fermato Giuseppe Pinelli. Quel fermo in questura si protrasse irregolarmente oltre i termini di legge, sfiancando Pinelli e cercando di ingannarlo con la notizia di una presunta confessione di Valpreda.

Alla fine, intorno a mezzanotte del terzo giorno di fermo, Pinelli morì cadendo dalla finestra. La prima ricostruzione dei questurini milanesi (“Si è gettato perchè il suo alibi era crollato”) risultò talmente smentita da far capire già da sola che gioco sporco si fosse consumato intorno alla figura, e alla vita, di Pinelli, oltre che ai danni del gruppo di anarchici per identificare un pericolo di sinistra contro il quale varare leggi speciali.

53 anni dopo, il silenzio vigliacco dei protagonisti di quelle vicende ha impedito di ricostruire almeno la morte di Pinelli. Resta la sentenza del giudice D’Ambrosio (che sarebbe poi diventato famoso nel pool di Mani pulite negli anni Novanta) che parlò di “malore attivo”: una salomonica, ma non troppo convincente, espressione per poter scartare sia l’ipotesi dell’omicidio che quella – divenuta insostenibile – del volontario suicidio. Ma anche credendo a un malore, resterebbe la responsabilità morale di chi organizzò e prolungò quell’interrogatorio a carico di chi facilmente si sarebbe potuto appurare innocente.

Ovviamente il fumo sulla morte di Pinelli si sposa con la lunga serie dei depistaggi che impedirono le condanne individuali dei responsabili di Piazza Fontana, anche dse è nelle sentenze la responsabilità del gruppo fascista di Ordine nuovo. Ma a quell’orrore se ne aggiunse un altro, che stavolta ebbe come vittima un commissario di polizia: Luigi Calabresi.

Calabresi fu probabilmente a sua volta pedina di un gioco sporco condotto da altri. “Amico” di Pinelli, fu lui a condurlo in questura, anche se poi non risulta la sua presenza nella stanza al momento della morte di Pinelli. Proprio su di lui, ciononostante, si appuntarono le attenzioni, l’odio e le accuse per la morte dell’amnarchico di tanti personaggi della sinistra italiana, ad iniziare dal quotidiano Lotta continua. E da quella campagna di attacchi si arrivò nel 1972 all’omicidio del commissario, con un agguato sotto casa mentre saliva in auto. Solo molti anni dopo, sulla base della testimonianza del pentito Marino, sarebbero stato individuati e condannati i responsabili (Sofri, Pietrostefani e Bompressi oltre allo stesso Marino) appunto del gruppo di Lotta continua.

Una tripla pagina dolorosissima e per vergognosa. Ecco perchè la storia di Pinelli (e di Piazza Fontana e del commissario Calabresi) va ancora raccontata, studiata, indagata: per arrivare a verità più precise. Magari con l’aiuto di chi, dopo una vita di vigliacco silenzio, potrebbe oggi dire la sua parte di verità.

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