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I negozi fisici chiudono e l’e-commerce sta crescendo in tutti i settori. La domanda sorge spontanea: per i negozi ha ancora senso avere delle belle vetrine se la maggior parte degli acquisti viene fatta online?
Facendo una rapida ricerca su Internet, appare evidente che il commercio in Italia si stia sdoppiando: da un lato, i negozi fisici perdono clienti e diminuiscono; dall’altro, l’e-commerce diventa sempre più centrale. Quindi quanto ha ancora senso avere delle belle vetrine se la maggior parte degli acquisti viene fatta online?
Breve storia delle vetrine
La definizione di “vetrina”, per Treccani, è “parte di un negozio prospicente la strada, chiusa da lastre di vetro, in cui vengono esposte al pubblico le merci in vendita”. Leggendo fra le righe, è evidente che le vetrine in quanto tali sono invenzioni piuttosto moderne, perché prima dell’industria del vetro era impensabile che tutti i negozi ne avessero una.
Sin dal ‘600, in realtà, il vetro era un materiale piuttosto comune. Sappiamo per certo che alla fine del XVIII secolo i negozi avevano già delle vetrine, perché nel 1786 la scrittrice tedesca Sophie von la Roche annotò nel suo diario la descrizione di un “astuto dispositivo per mostrare i tessuti femminili”. Von la Roche continua: “Che fossero sete, chintz o mussole, pendevano piegati dietro le bellissime vetrine, in modo da dare lo stesso effetto che avrebbero dato su un vestito”. All’epoca, però, queste vetrine erano semplici finestre come quelle delle case, e cioè pannelli di vetro spesso separati da infissi di legno. Il motivo è semplice: il vetro era sì diffuso, ma non tecnologicamente avanzato per essere prodotto in grandi lastre.
Nel 1827, l’americano John P. Bakewell inventò la pressa per vetro, che permise la produzione in massa e in grande formato di lastre e vetrine. Nel giro di vent’anni, grazie a questa innovazione, fu possibile – per esempio – costruire il Crystal Palace per la famosa esposizione universale del 1851. Soprattutto, fu più facile installare vetrine larghe, spaziose e piene di oggetti in vendita. Come appuntò Charles Knight nei suoi diari, si trattava di “ininterrotte masse di vetro che andavano dal terreno al soffitto”.
Le svolte
I negozianti, con le nuove vetrine, potevano finalmente esporre la merce in bella vista, farla ruotare stagionalmente e allestire veri e propri “spettacoli” di stoffe e oggetti di vario genere. Parigi, che alla fine dell’800 era la capitale della Belle Èpoque, divenne anche conseguentemente la capitale della moda e degli acquisti, e le sue vetrine erano piene di cose.
La svolta finale arrivò con due ulteriori invenzioni. La prima furono le gallerie commerciali, che vennero inaugurate proprio a Parigi. Le persone potevano passeggiare fra le vetrine e i negozi, passare da una boutique all’altra ed essere tentati da ciò che vedevano oltre le grandi lastre di vetro – e tutto in un unico posto! Di fatto, era l’embrione del consumismo.
La seconda invenzione che diede un’accelerata alle vetrine fu l’introduzione della luce elettrica. Prima di essa, infatti, le boutique e le gallerie commerciali erano illuminate dai lampioni a gas – pericolosi e fiochi –, ma ora era tutta un’altra storia. Le luci funzionavano sui clienti come le fiamme sulle falene: chi aveva la vetrina più luminosa e bella, in un’epoca in cui tutto era ancora nuovo e pulsante, avrebbe sicuramente avuto più clienti.
Psicologia delle vetrine
Una vetrina, per essere competitiva ed efficiente, deve attrarre più delle altre, quindi le luci e l’allestimento funzionano oggi come nell’800. Elementi appariscenti e particolari e tubi al neon attirano sicuramente l’attenzione, mentre i colori suggeriscono idee diverse: il rosso è più vivace e allegro del nero, il blu è un colore rilassante… e così via.
Sistemati i prodotti in modo tale che l’occhio ci caschi istintivamente – l’altezza media dello sguardo è un metro e settanta, quindi è utile sistemare lì gli elementi più appariscenti –, è bene convincere i clienti con l’offerta. Chi vende vestiti, per esempio, dovrebbe proporre outfit completi per dare già un’idea di come quella maglia carinissima potrebbe essere abbinata a quei pantaloni; chi vende elettronica, invece, potrebbe sfoggiare anche gli accessori più “di nicchia”. Di fatto, l’allestimento deve portare le persone a muoversi: spaziare con gli occhi, ricevere input, divertirsi – finché non sono abbastanza persuase da entrare.
L’ascesa dell’e-commerce
Secondo l’Osservatorio Compass, più della metà degli italiani scelgono Internet come canale d’acquisto principale, e quasi tutti per la convenienza dei prezzi. La pandemia, inoltre, ha imposto un’accelerata non indifferente anche a quei settori un tempo generalmente pensati lontani dal Web, come cibarie e prodotti per la casa – detersivi, giardinaggio… eccetera.
Questa situazione, che probabilmente si sarebbe presentata comunque ma con tempi più lunghi, fa sorgere spontanea la domanda di prima. Per i negozi ha ancora senso avere una bella vetrina se la maggior parte degli acquisti viene fatta online?
Per molti versi, acquistare online è più semplice, perché Internet stesso ci dice cosa vogliamo prima ancora che noi stessi ci rendiamo conto di desiderarlo. Tramite i cookies e gli algoritmi, infatti, i motori di ricerca e i social ci propongono possibili acquisti sulla base delle nostre ricerche e delle nostre attività online, suggerendoci prodotti di cui magari non abbiamo bisogno ma che ci facciamo convincere essere indispensabili.
Senza contare che acquistare online è molto meno faticoso: niente spostamenti da casa, possibilità di pagare velocemente, scelta vastissima e disponibilità di reso e rimborso quasi ovunque. E poi, oggi si può comprare online ovunque – anche su Instagram.
Le vetrine ai tempi di Internet
Da un paio d’anni a questa parte, Instagram ha introdotto direttamente in-App la funzionalità “shopping”. Di base, chiunque abbia un negozio può vendere direttamente tramite il social. Per i negozi fisici è un bonus in più, perché basta aprire un e-shop e una pagina Instagram e il social stesso reindirizzerà gli utenti direttamente sullo store, togliendo loro l’incombenza di cercarlo su Google. Senza contare che, con un piccolo investimento, si possono creare post sponsorizzati che arriveranno a persone probabilmente interessate ad acquistare i prodotti specifici, mentre è quasi ovvio che aumenterà il numero di potenziali clienti. Chi vive in città ma non conosce il negozio, infatti, potrebbe decidere di passarci davanti – magari dopo aver selezionato il “ritiro in sede” al momento dell’acquisto su Instagram –, oppure i forestieri in vacanza potrebbero finalmente visitare la boutique che hanno sempre sognato.
Come in un negozio “normale”, però, non basta avere dei bei prodotti da vendere: serve anche una confezione, un pacchetto accattivante, qualcosa che attragga – soprattutto se si parla del “social delle immagini”. Serve, insomma, una vetrina.
Un esempio concreto
Spulciando su Instagram le “pagine shop” della città di chi scrive, viene fuori che ci sono solo nove negozi. Tre di questi hanno più di 10mila followers (uno, in particolare, supera i 30mila), mentre gli altri quattro raggiungono a malapena i 1000. La cosa interessante, nonostante la dicotomia evidente, è che i settori di vendita sono gli stessi: i tre più “quotati” sono un negozio di piante e due di abiti; gli altri quattro sono un fiorista, un negozio per la casa e un paio di negozi di abbigliamento. Eppure, guardando i profili, salta subito all’occhio il motivo della differenza.
Il negozio di piante con 30mila followers ha una pagina pulita, chiara e accattivante; la bio è completa e piena di emoji, ci sono i link cliccabili e le storie in evidenza con le copertine e il feed è “artistico” e cromaticamente ordinato. L’altro fiorista, invece, ha una bio piatta, un link non cliccabile e nessuna storia in evidenza; il feed è composto sì da foto carine e piacevoli, ma decisamente scattate col cellulare e postate senza editing. In molte, addirittura, si vede il cartellino col prezzo del prodotto ritratto. Se il primo denota una certa cura e un abbozzo di piano editoriale, l’altro è lasciato al caso.
La stessa cosa succede coi negozi di vestiti: a prescindere da due bio passabili, quello con 10mila followers ha un feed più ordinato e cromaticamente accattivante, mentre l’altro ha semplicemente fotografato i vestiti esposti. Il primo, poi, fa indossare gli abiti ai modelli – l’altro non sempre. Uno ha le storie in evidenza e un’immagine profilo sensata, l’altro nessuna delle due.
Social vs negozio fisico
Balza subito all’occhio che il target dei negozi è diverso. Basta guardare il tipo di prodotti che vendono per accorgersene: quelli con oltre 10mila followers sono pensati per un pubblico giovane, per la Gen Z; gli altri sono più generalisti, più “adulti”.
Non è un caso che le migliori “vetrine social” siano quelle dei negozi più giovanili, perché sanno cosa postare e come rendere il tutto più accattivante. Gli altri negozi, invece, danno l’impressione di presenziare sui social perché sì, perché lo fanno tutti, ma non sembra esserci un vero e proprio piano ben definito. Questa differenza “anagrafica” risulta ancora più evidente dalle vetrine fisiche.
Il negozio di vestiti con 10mila followers, di fatto, non ha una vetrina, ma solo un manichino vicino a un tavolo pieno di accessori. Il negozio di piante, invece, ha una vetrina buia e piena di foglie, ma la spaziosità del vetro permette di vedere benissimo l’intero negozio senza neanche entrare, trasformando la vetrina in un semplice divisore fra la strada e l’interno.
Il fiorista con meno followers, al contrario, punta chiaramente sul negozio fisico. Oltre ad avere a disposizione due vetrine spaziose, ha disseminato il cortile antistante di piante, vasi e composizioni. È impossibile, per chi passa in auto, non notarlo. L’altro negozio di vestiti, invece, è costretto da una vetrina molto piccola a giocarsela come può: l’unico manichino è posizionato in modo da far vedere tutto il resto del negozio, come se l’intera boutique fosse essa stessa la vetrina. Il primo, diversamente e nonostante avesse a disposizione uno spazio espositivo immenso, ha deciso di puntare comunque sul minimalismo.
In definitiva, a prescindere dalla possibilità di acquistare online, i negozi “giovani” e con più con followers usano i social per mettersi in mostra, per farsi seguire – tanto da avere quasi sicuramente clienti assicurati da questo. Gli altri due, invece – anche per questioni anagrafiche –, investono meno su Instagram e più sul “passaggio” – uno è nel centro storico, l’altro su una strada trafficata. Guardando il target dei loro prodotti e il loro “brand”, è quasi naturale che sia così.
In queste due foto si può notare ciò che si diceva poc’anzi: il primo negozio ha una vetrina spoglia e minimale, mentre l’altro ha spostato il manichino su un lato per far vedere l’intera boutique senza bisogno di entrare.
Le vetrine ieri e oggi
Se oggi i negozi puntano sulle “vetrine social” tanto da risparmiare su quelle fisiche – del resto, se un cliente va nel negozio perché lo conosce già da Instagram, non serve avere un’esposizione studiata e accattivante –, come sono cambiate le vetrine fra ieri e oggi?
Cinquant’anni fa – nella foto qui sotto –, la Upim aveva una vetrina colma: tre manichini completamente abbigliati, una seconda vetrina con decine di pantaloni e altri vestiti, un’insegna grande e luminosa.
Oggi, invece, i negozi puntano su altro. I due “più social” precedentemente analizzati hanno insegne piccolissime e vetrine minimali. Le grandi catene – forse proprio perché sono tali e non hanno bisogno di esporsi – propongono una serie di semplici manichini nel nulla più totale.
I piccoli, pochi e classici negozi fisici rimasti, però, usano ancora – e tanto – le vetrine. Il fiorista e il negozio di vestiti più “adulti”, infatti, hanno vetrine impostate sul mettersi in mostra il più possibile, arrivando addirittura sulla strada. Forse in quest’epoca di e-commerce, centri commerciali immensi e negozi sui social, una vetrina esagerata e ancora più propositiva può essere l’unica possibilità per continuare ad apparire. Forse le vetrine non sono mai state tanto necessarie come oggi.
Alessandro Mambelli
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