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Matrimoni LGBTQ+: La Svizzera li approva. Qual è la situazione europea?

4 ' di lettura

La popolazione svizzera si è espressa tramite referendum per approvare il matrimonio fra coppie omosessuali. Un successo per tutti i cittadini LGBTQ+ che, lo scorso 26 settembre, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo. La notizia aggiunge il paese dei cantoni alle 29 nazioni (di cui 16 europee) che riconoscono il matrimonio fra persone dello stesso sesso all’interno delle proprie legislazioni. L’Italia, purtroppo, non è fra queste.

Il referendum svizzero è la conseguenza di una legge già approvata con netta maggioranza a dicembre, ma bloccata da una raccolta di firme portata avanti da alcuni partiti conservatori. Una dura lotta che si è conclusa con il 64,1% di voti favorevoli al provvedimento, che entrerà in vigore a partire da luglio 2022. L’ultima approvazione di una legge simile risale allo scorso anno in Irlanda del Nord, ma la storia dei matrimoni fra persone LGBTQ+ in Europa ha già compiuto vent’anni; ne abbiamo ripercorso le tappe principali.

I matrimoni LGBTQ+ in Europa

Il primo Stato al mondo a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso è europeo: si tratta dei Paesi Bassi che approvano la legge nell’aprile del 2001. Recentemente la nazione è tornata a fare notizia ospitando la prima monarchia che permetterà ai reali di sposare persone dello stesso sesso. Due anni dopo segue il Paese confinante del Belgio che legalizza anche le adozioni nel 2006. A fare molto scalpore fu l’approvazione dei matrimoni LGBTQ+ in Spagna nel 2005, Stato notoriamente conservatore. Il cambiamento avvenne sotto il governo Zapatero nonostante le forti opposizioni della Chiesa Cattolica. Fra il 2008 e il 2009 si aggiungono alla lista Norvegia e Svezia. La prima diventa il primo Paese nordico a legalizzare il matrimonio fra coppie omosessuali anche se ci vorrà più tempo per approvare i matrimoni in chiesa che vengono autorizzati solo nel 2016. Tuttavia, fra le due nazioni il primato per quanto riguarda le adozioni è della Svezia dove quest’ultime sono legali dal 2003.

Menzione onorevole va all’Islanda, che nel 2010 è in pieno negoziato per entrare nell’UE. Nello stesso anno diventa il primo paese al mondo ad avere un capo di Stato apertamente omosessuale. Il nuovo presidente approva i matrimoni a giugno (anche se le adozioni erano già possibili dal 2003). A seguire, due anni dopo, è la Danimarca, che poteva vantare di essere stato il primo Paese al mondo ad introdurre le unioni civili nel 1989 ma che ha atteso 23 anni per regolamentare i matrimoni. Nel 2013 anche i cittadini LGBTQ+ francesi acquisiscono il diritto di sposarsi, nonostante il provvedimento susciti forti tensioni.

Anche nel Regno Unito la situazione è molto tesa a causa clima sociale disuguale fra le diverse nazioni che lo compongono. Le adozioni sono possibili dal 2005 in Inghilterra e Galles, dal 2009 in Scozia e dal 2013 in Irlanda del Nord. Quest’ultimo è il paese che oppone più resistenza: mentre i primi tre legalizzano i matrimoni fra coppie LGBTQ+ nel 2014, per l’Irlanda del Nord il provvedimento arriva solo nel 2020 approfittando del mancato rinnovo della coalizione di unità nazionale tra la destra unionista protestante e la sinistra repubblicana cattolica. Il Paese ha anche legalizzato l’aborto, precedentemente consentito solo in caso di pericolo di vita della donna.

Benché la vicina nazione abbia visto un cambiamento più lento, l’Irlanda, dove le unioni civili erano già possibili dal 2011, approva il matrimonio gay, assieme alle adozioni, nel 2015. Gli irlandesi approvano la legge con voto popolare; è la prima nazione al mondo a farlo. Nello stesso anno il matrimonio tra persone dello stesso sesso diventa legale, assieme alle adozioni, in Lussemburgo. In Finlandia le coppie omosessuali, che potevano usufruire delle unioni civili dal 2002, acquisiscono il diritto di sposarsi ed adottare nel 2017, precedendo la Germania. Infine, abbiamo l’Austria, il cui percorso verso pari diritti è formato da diverse tappe. Inizialmente viene concessa la coabitazione non registrata nel 2003, poi unioni civili nel 2010. Le adozioni sono legali dal 2016, ma il matrimonio viene approvato dalla Corte costituzionale solo nel 2019.

E in Italia?

Secondo l’Eurobarometro sulla Discriminazione della Commissione Europea (2019) Il 76% dei cittadini europei desidera pari diritti per le persone LGBTQ+ ed eterosessuali. Tuttavia, in Italia solamente il 68% concorda, una percentuale nettamente inferiore alla media europea. Fra i Paesi più accoglienti troviamo Svezia, Olanda e Spagna con una percentuale di favorevoli intorno al 90%.

Fino ad ora, il più grande cambiamento italiano in tema di diritti LGBTQ+ è stata la legge n. 76 sulle unioni civili, anche detta “legge Cirinnà”. È in vigore dal 2016 e garantisce molti dei diritti presenti nel matrimonio, ma non il diritto all’adozione, rimosso all’ultimo momento. Nonostante ciò, è molto sentita la totale assenza di una legge che tuteli i cittadini discriminati per il loro orientamento sessuale e/o identità di genere.

Proprio per questo, Secondo Ilga Europe 2020, l’Italia si classifica 35º su 49 Paesi europei per quanto riguarda i diritti delle persone LGBTQ+. La prospettiva peggiora se si considera che il Parlamento Europeo richiede l’istituzione di una legge relativa ai crimini d’odio dal 2006, ancora senza risultato. L’ultimo, discutessimo tentativo è il “DDL Zan”, approvato alla camera solamente il 4 novembre 2020 e attualmente ancora fermo in Senato a causa degli oltre mille emendamenti presentati dalla destra conservatrice.

Matrimoni o unioni civili?

Le unioni civili sono state in molti paesi europei il primo passo verso una completa regolamentazione dei matrimoni. Tuttavia, è importante ricordare che fra i due esistono differenze sostanziali. L’istituto dell’unione civile in Italia, benché anch’esso fondato sulla Costituzione, non è equiparabile al matrimonio nei suoi aspetti formali. Esso non prevede una cerimonia né adempimenti preliminari. Sono diverse le mancanze: oltre alla possibilità di adozione, non è possibile dichiarare la maternità/paternità per i figli del proprio coniuge. Ciò significa che, anche per i figli nati all’interno dell’unione, l’unico soggetto riconosciuto legalmente è il genitore biologico. Questo comporta evidenti problemi in caso di morte del genitore biologico o per la richiesta di assegni familiari. Inoltre, è interessante notare come in caso di omicidio del coniuge il marito o la moglie non siano soggetti alle aggravanti penali valide per le coppie sposate.

Insomma, un passo oltre la convivenza, ma non ancora un’unione a tutti gli effetti agli occhi della legge. Quella delle unioni civili è infatti una soluzione adottata spesso per mettere a tacere sia la parte della popolazione che reclama pari diritti sia il fronte più conservatore. Proprio per questo motivo è una soluzione frequentemente criticata e considerata di passaggio, eppure, in Italia nulla è cambiato negli ultimi cinque anni.

Festeggiare, ma non troppo

La notizia del referendum svizzero punta nuovamente i riflettori su una questione che si colloca in un clima di forti opposizioni. Nonostante lo scorso 11 marzo il Parlamento Europeo abbia proclamato l’UE come “zona di libertà per le persone LGBTIQ+” Paesi come l’Ungheria e la Polonia restano luoghi ostili per i cittadini di diversi orientamenti sessuali. I due Stati membri hanno recentemente utilizzato il veto per fermare un provvedimento europeo per la lotta al bullismo che avrebbe introdotto la possibilità di accogliere attivisti LGBTQ+ nelle scuole. Fra le motivazioni date dalla ministra ungherese della giustizia, Judit Varga, vi è quella di non voler cedere alle “pressioni della lobby LGBTQ+”. Una narrazione spesso utilizzata dalle fazioni conservatrici che sfrutta antichi timori dipingendo l’acquisizione di diritti come un attacco ai valori della nazione.

La strada da fare è quindi ancora lunga e tutta in salita, nonostante i continui passi in avanti.
L’UE, nonostante si presenti come un luogo di libertà e progresso, ospita ancora Paesi in cui le persone LGBTQ+ non sono tutelate in alcun modo. È importante sottolineare, in momenti di progresso come questo, che l’omosessualità è ancora considerata reato in 68 paesi al mondo. Il progresso svizzero ha il compito di ricordare quanto sia necessario un cambiamento sostanziale delle politiche a livello comunitario.

Federica Morichetti

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