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Alessandro Cattelan, “Da Grande” e la parabola arbasiniana

3 ' di lettura

Diversi anni fa, Alberto Arbasino sintetizzò in una frase la parabola vissuta dagli scrittori nazionali: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stro**o”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”». Oggi questa parabola ci torna utile per occuparci di Alessandro Cattelan, protagonista di uno show più chiacchierato che visto: “Da Grande”, in onda per due domeniche sulla rete ammiraglia del servizio di stato, Rai Uno.

I giovani? Solo per i giovani

Se certamente possiamo escludere per il conduttore piemontese la definizione di “venerato maestro”, ci rimane da discutere sulla sua condizione di “brillante promessa”. Nonostante la sua faccia da ragazzone, Cattelan ha già festeggiato i 41 anni, dei quali gli ultimi venti passati sul piccolo schermo. Dai grandi successi come “TRL” su Mtv, “X Factor” e “E poi c’è Cattelan” su Sky fino all’interpretazione di uno spot per l’ENEL andato in onda su tutti i canali.
Dire che sia uno sconosciuto è senza dubbio un esercizio di malafede; dire che sia un giovane è invece cattiveria pura nei confronti di chi in questo momento ha vent’anni e si vede prospettare un riconoscimento minimo per quando avrà compiuto il doppio della vita trascorsa finora.
Cattelan non è un giovane. Certo, se la televisione “classica” propone al venerdì sera, una delle serate di punta per lo spettacolo, Alba Parietti conciata come una punk londinese che imita Damiano dei Maneskin nella undicesima (!) edizione di “Tale e Quale Show”, è un puro esercizio di retorica discettare delle opportunità riservate ai giovani sul piccolo schermo.

Elodie e Sangiovanni sono state le uniche due concessioni al pubblico giovanile

Ma l’Italia non è un paese per giovani

Quindi, se non può essere la “brillante promessa”, non resta che trattarlo come il “solito stro**o”. Diciamocela tutta: “Da Grande” non è stato certo un successo. Il programma ha fatto parlare molto più per le scudisciate ricevute dall’Auditel – con una media del 12% di ascolti, Cattelan è stato battuto durante la prima puntata dalla finale dell’europeo maschile di volley e durante la seconda addirittura dal redivivo Enrico Papi con “Scherzi a parte” – che per i suoi effettivi contenuti, e questo è un peccato.

Ciò mette in luce anche un dato “laterale” e tuttavia evidente, ovvero che quasi tutti gli opinionisti chiamati ad esprimersi su questo programma hanno guardato più gli indici di ascolto che le due serate. Il perché è presto detto: acquistando le prestazioni di Cattelan, la Rai non ha messo in scuderia un conduttore, ma un vero e proprio format. Il tortonese è il format di sé stesso. È vulcanico, sinceramente simpatico e voglioso di cimentarsi nei più diversi campi (ha cantato, ballato, recitato dei piccoli sketch) e questo può farlo risultare egocentrico all’occhio del critico stagionato o del boomer abituato a sentire da vent’anni la solita battuta sul colore della pelle di Carlo Conti.
Queste sue caratteristiche però lo rendono un perfetto uomo di spettacolo, capace di trascinarsi sulle spalle tre ore di programma (effettivamente un po’ troppe) senza che lo stesso perda di smalto, coinvolgendo gli ospiti in modo brillante – come quando ha intervistato Gianmarco Tamberi seduto su una sedia alta due metri e trentacinque centimetri – e risultando sempre spontaneo, senza forzare mai la mano. Tutte caratteristiche difficilmente reperibili negli anchorman italiani, che Cattelan ha voluto confluissero in “Da Grande” affinché fosse un po’ un manifesto del cattelanesimo. Lui è questo e fa questo, così come ha già dimostrato in “E poi c’è Cattelan”.

“Da Grande”, quindi, non è stata una riproposizione del fortunato programma di Sky, ma una sua evoluzione, modellata sul conduttore messo in prima serata Rai, cosa che giustifica la presenza di ospiti come Il Volo e Serena Rossi, ma senza ulteriori ammiccamenti verso il pubblico “under”, mai abbastanza considerato dai vertici di Viale Mazzini.

Il flop è negli occhi di chi guarda

Chiedersi dunque se “Da Grande” non abbia avuto il successo sperato per “colpa” di Cattelan o della mancata presa sul pubblico giovanile non vuol dire cercare una risposta al flop, ma piuttosto mettere in luce il modo della Rai di interpretare il mezzo televisivo nel 2021, escludendo aprioristicamente la fascia d’età che sarebbe poi il pubblico naturale di questo genere di proposte, ovvero la fascia tra i 25 e i 40. La Tv di Stato propone infatti format per infanti (come le aberrazioni della seconda rete che rispondono ai nomi de “Il collegio” e “Voglio fare il mago”) o, saltando una generazione, si rivolge direttamente ai “soliti” over 40, per cui vengono costruite trasmissioni-nostalgia o fiction su fiction d’ogni risma.
La televisione è quindi fatta, pensata e costruita per la fascia d’età cui è stato destinato il vaccino AstraZeneca. Oggi è ancora questo il paradigma archetipico e quando qualcosa va fuori binario, o cerca di sperimentare vie nuove, non viene recepito e diventa flop. Ancora peggio: è relegato in seconda/terza serata (Battute prima e Una pezza di Lundini poi), se non addirittura su RaiTre, diventata l’altare su cui sacrificare gli esperimenti (Bollani prima e ora il duo Giallini/Panariello).

L’audacia che Cattelan stesso avrebbe voluto avere in queste due puntate è stata quindi frenata da un contesto monolitico in cui il conduttore ha cercato di muoversi con i propri mezzi, riuscendo solo parzialmente nell’impresa. Dal canto suo, il direttore di Rai Uno Stefano Coletta ha più volte dichiarato di “non essere interessato ai numeri”, e ciò fa pensare che queste due prime serate siano state più che altro una prova generale per il conduttore tortonese (apparentemente destinato alla conduzione dell’Eurovision in maggio). L’ardore con cui i critici (TUTTI over 50) si sono affannati a scagliarsi contro Cattelan farebbe passare a chiunque la voglia di cimentarsi con altro che non sia “la solita solfa”. E se questi sono quelli che ambiscono al ruolo di “venerati maestri”, allora forse sì, è meglio rimanere dalla parte dei “soliti stro**i”.

Mario Mucedola

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