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1984. Non c’entra niente Orwell, tanto più che in quell’anno c’era Bettino Craxi al governo che ridefiniva il Concordato con la Chiesa, più su un nugolo di facinorosi capitanati da Umberto Bossi costituivano la Lega Lombarda mentre più giù Giovanni Falcone riusciva a strappare la collaborazione di Tommaso Buscetta che avrebbe poi portato al maxiprocesso per mafia. Alle porte dell’estate del 1984 invece Giuni Russo pubblicava “Mediterranea”, il suo quarto album.
La genesi
Per capire questo album, occorre un salto indietro di tre anni, nel 1981, quando Giuni Russo conosce il suo pigmalione Franco Battiato, che la porta sulla “linea magica”, la retta che vede ai due estremi Battiato stesso e dall’altro Giusto Pio. Insieme pubblicano “Energie” e “Vox”, rispettivamente secondo e terzo disco in studio della Russo, entrambi votati alla sperimentazione. Nel mezzo, nel 1982, sempre Battiato e Pio scrivono “Un’estate al mare”, per quella che doveva essere una parentesi commerciale – per quanto il brano narri una storia tutt’altro che spensierata – ma di tale successo che la CGD, in cui era appena subentrata Caterina Caselli come produttrice discografica, sembrava intenzionata a replicare all’infinito, rendendo la Russo una reginetta estiva e decidendone a tavolino la sorte artistica.
Il diniego dell’artista siciliana, più propensa alla sperimentazione che alla ripetizione, provocherà il sistematico boicottaggio dei successivi lavori da parte della sua casa discografica: lascerà passare sotto traccia “Vox”, l’album del 1983 e soprattutto si fa artefice del “fattaccio brutto der 1984”, annullando la partecipazione a Sanremo di Giuni Russo, dopo che l’artista venne selezionata. Spiegazione: perché impegnata col ritorno sulle scene di Patty Pravo, fresca di contratto con la Compagnia Generale del Disco.
Il disco
“Mediterranea” viene fatto uscire a ridosso dell’estate del 1984, periodo non particolarmente favorevole per l’uscita di un album, e se Giuni Russo avrebbe voluto che il singolo-traino fosse la traccia che dà il nome al disco, la CGD si impuntò perché invece fosse “Limonata Cha Cha Cha”, brano che sicuramente mette in mostra le qualità vocali della cantante ma che sembra ancora orientato verso un’immagine prettamente estiva, per quanto quel mondo venisse preso in giro dalla Russo. Tanto più che il testo, pur sembrando spensierato e rifacendosi smaccatamente al “Cha Cha Cha della segretaria” degli anni Sessanta, racchiude nei primi due versi di ogni strofa il senso del brano: “Abbattimento morale/Adesso provo perché/Successo, trionfo e fortuna/Le carte hanno detto per me”. Il disco in sé è un perfetto esempio di synthpop – in linea coi tempi, se pensiamo che il 1984 fu l’anno di “Jump” dei Van Halen e di “Some great reward” dei Depeche Mode – e pur non vedendo la diretta collaborazione di Battiato, assomma in sé l’ossatura della band con cui il Maestro realizzò, due soli anni prima “La voce del padrone”: Alberto Radius alla chitarra, Filippo Destrieri ai sintetizzatori e Paolo Donnarumma al basso. Il risultato è un disco di pregevole fattura, che mette in mostra la voce della cantante, capace di rimettere in pace col mondo ad un ascolto concentrato, con dieci brani che si snodano in poco più di mezz’ora di ascolto che sembra passare in un minuto. “Mediterranea”, primo brano, è di sicuro la vetta del disco, brano ispirato tanto musicalmente quanto liricamente. Se conoscete il brano pensateci, se non lo conoscete ascoltatelo. Cosa mancava a questo brano per venir riconosciuto come un classico internazionale degli anni ‘80? La vedete, sui synth, l’ombra dei Talking Heads? Riconoscete come espressione artistica quei vocalizzi sul ritornello? Cos’avevano in meno rispetto ad altri classici degli Eighties? Misteri della discografia, che chi comanda è sempre il più ottuso del gruppo.
“Aprite le finestre” sembra la pt.2 di “Limonata Cha Cha”, altro brano che riprende un classico della tradizione melodica italiana, piegandolo però a piacimento dell’estensione della voce di Giuni Russo.
Nel 1984 però la Russo partecipa al Festivalbar, quasi a voler tener buona la CGD e porterà, oltre al singolo e a “Mediterranea”, anche “Demenzial Song”, brano che si snoda su una base ossessiva di drum machine e che la porta a raggiungere il registro M3, il cosiddetto “whistle sound”, ovvero l’intervallo tonale più acuto udibile dall’orecchio umano. E se non ci credete ascoltate com’è cantato il “Polonia” nel ritornello della traccia in questione. Subito successiva è “Una sera molto strana”, brano quasi da operetta, in cui la voce di Giuni è guidata dal testo di Faffner, pseudonimo del famoso critico musicale Mario Luzzato Fegiz, che aveva già collaborato con lei nell’album precedente. Il risultato è un brano davvero “molto strano”, in bilico tra la già citata lirica e i suoni sintetici leitmotiv del disco. Di primo acchito potrà sembrare davvero un azzardo, ma se pariamo di “osare” musicalmente è esattamente lì che andiamo a parare, parliamo di un disco di quasi quarant’anni fa che fa qualcosa che adesso non riusciamo neanche ad immaginare. Se anche il concetto di “sperimentazione” che abbiamo in mente fosse fermo al solo Brian Eno, dovremmo tenere conto del suo continuo mischiare i linguaggi, e cos’è questo brano se non un riuscito tentativo di sintesi tra due mondi apparentemente distanti?
Subito dopo, “Le contrade di Madrid” ovvero il classico brano-ponte che apre il lato B, il sesto brano che prova ad incuriosire e rialzare la soglia dell’attenzione anche nei confronti del retro del vinile. E in che modo. Ma arriva la successiva “Babilonia”, con il suo ritmo frenetico, la citazione dai Carmina Burana ed i suoi continui rimandi al mondo LGBT. La stessa Giuni Russo, in un’intervista per “Babilonia” del 15 giugno 1984, diceva «Ho inciso un pezzo che definisco “frocissimo” e piacerà molto ad un certo tipo di pubblico». E se “Ciao” è un brano che racchiude nel suo ultimo minuto la dimensione dell’esercizio stilistico posto in essere dall’artista siciliana, la conclusiva “Keiko” è un viaggio in Giappone sapientemente pilotato dalla voce di Giuni, che ripete “ti amo” e “grazie” nella lingua del Sol Levante rievocando, essendo Keiko un nome tipicamente femminile, tematiche care al movimento omosessuale.
Fare arte o fare soldi?
Passano così trentacinque minuti e si rimane avvolti tra i solchi di questo disco, se pur ascoltato in versione digitale. Al di là della bellezza dell’album in genere, del tutto al pari con le produzioni estere contemporanee, non si può far a meno di centrare una digressione sul ruolo che la discografia ha avuto nel corso degli anni. Una sorta di miopia endemica che ha precluso il successo ad alcuni, ha modificato o addirittura cancellato le carriere di altri, in nome della vendibilità del prodotto. Finendo per manifestare, in campo musicale, quello che Schulz-Buschhaus identificava come paradosso prettamente letterario, ovvero la teorica propensione per la novità ma la continua reiterazione, nella pratica, di determinati modelli considerati di successo e quindi remunerativi. Il nuovo, ma fino a un certo punto, poi bisogna fatturare.
Com’è andata a finire la querelle tra la cantante e la sua casa discografica? Nel 1985 Giuni Russo si mette al lavoro per il suo nuovo disco, che però viene ostacolato tanto dalla CGD quanto da altre case discografiche, che si rifiutano di mettere sotto contratto un’artista “disobbediente”. Firma per la Bubble Records, un’etichetta molto piccola ma per questo fuori dall’ambiente tossico che aveva voltato le spalle a Giuni. Nel 1986 esce il disco che porta il nome della cantante, al suo interno c’è “Alghero”. Credo risulti chiara l’entità del successo. Del resto, questo riflette la carriera di Giuni Russo: raggiunge il successo con canzoni estive o comunque apparentemente leggere ma nasconde in sé un mondo intero ancora lontano dall’essere totalmente svelato. Un’artista sottovalutata, senza ombra di dubbio ma tra le colonne portanti della musica italiana di qualità.
Mario Mucedola
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