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L’Unione Europea si presenta oggi come un regime dei confini: le politiche europee in termini di migrazioni ed asilo sono esplicitamente volte a combattere i migranti e le migrazioni.
Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 le Rotte migratorie dell’est Europa sono state al centro del dibattito mediatico, le foto del campo di Lipa, in Bosnia, hanno fatto il giro del mondo dopo che alla fine dello scorso anno un incendio lo aveva distrutto. Ironia della sorte: lo stesso giorno l’OIM (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) aveva annunciato la chiusura del campo, ritenuto inadeguato a ospitare persone. I migranti sono costretti a sopravvivere senza acqua, senza fognature e senza elettricità. Nonostante l’attenzione mediatica oggi sia scemata, le rotte sono attive più che mai; anzi, con l’arrivo della bella stagione aumentano i migranti che tentano di percorrerle.
L’intervista a Giovanni Marenda
Per comprendere le dinamiche con un occhio interno ci siamo affidati a Giovanni Marenda: studente magistrale in Sociologia e Ricerca sociale e laureato in Relazioni Internazionali. Gravita tra collettivi e movimenti sociali del vicentino e non solo. Dopo un’esperienza di studio ad Atene si è interessato a quanto succede lungo i Balcani.
Contestualizziamo gli eventi: cosa si intende per “Rotte Balcaniche” e quali sono le popolazioni coinvolte?
Sono i percorsi attraversati dai migranti che uniscono la Turchia con l’Europa Continentale, come Austria, Italia, ma attraversano tutti i Balcani. Sono diretti per lo più verso il nord Europa, in Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Olanda. Non in Italia. Cominciano a crescere dal 2015, quando la rotta del Mediterraneo centrale inizia a chiudersi con la fine dell’operazione “Mare Nostrum”. Si dismette la struttura di salvataggio in mare e, dal 2017, entrano in vigore gli accordi con la Libia, quindi i flussi si spostano verso est. Il 2015 inoltre, è un periodo molto caldo e delicato in Siria: moltissime persone scappano dalla guerra.
Le rotte si modificano sulla base delle politiche attuate dai paesi europei, dunque non esiste un’unica Rotta, ma è più corretto dire che ci sono persone che vorrebbero arrivare in Nord Europa e politiche che le bloccano. In particolare, la Bosnia e la Serbia negli ultimi due anni sono il “collo di bottiglia”. Dopo che l’Ungheria ha chiuso le frontiere, i confini croato-serbo e bosniaco-croato sono diventati difficili da attraversare, mentre la Croazia è una sorta di “gendarme” d’Europa.
“Bosnia e Serbia sono i Paesi Balcanici con più migranti – continua Marenda – tra ottomila e diecimila, anche se i dati non sempre si possono considerare affidabili”. Nel 2016, un’altra mossa politica ha stravolto e chiuso le rotte: l’accordo tra Unione Europea e Turchia, a cui dal 2016 sono stati consegnati sei miliardi di euro, per tenersi i migranti. Si stima che ci siano quattro milioni di persone bloccate in Turchia, un numero enorme rispetto a quanto se ne trovano lungo le Rotte Balcaniche. Arrivano da Siria, Afghanistan – presenza principale e al momento molte famiglie -, Iraq e Pakistan.
Come si affronta il problema nelle nazioni attraversate?
In Bosnia, la popolazione è molto povera, lo Stato è quasi un protettorato internazionale con una governance molto debole. La popolazione si divide tra serbi, croati e bosniaci. Gli effetti della recente guerra sono ancora evidenti, considerato che molti giovani sono emigranti. Molti sono musulmani – una peculiarità della Bosnia – e la popolazione aveva avuto una reazione molto solidale nei confronti dei migranti, a partire dal 2018. Però, la situazione nel tempo si è aggravata: oggi c’è una tensione molto alta al punto che si verificano spesso episodi di violenze come pestaggi e furti nei confronti dei migranti perpetuate dai cittadini locali e dalla polizia, in particolare durante gli sgomberi. Inoltre, la presenza di migranti si concentra nella parte di Bosnia musulmana, vicina al confine Croato a nord-ovest, mentre sul lato serbo vengono semplicemente respinti.
La solidarietà viene punita, così si attua di nascosto.
A decidere quale politica agire qui è l’UE: esternalizzando la frontiera, la Bosnia diviene uno stato cuscinetto.
Chi tenta di attraversare il confine prova il cosiddetto “Game”: che dura circa dieci giorni, ma poi ci possono volere anche tra sei e dieci mesi per superare la frontiera bosniaca. Il termine sembra rimandare a un gioco di ruolo, anche se di ludico non ha nulla, dato che ci si gioca la vita, ma il termine dà l’idea di quanto distopica sia la situazione.
In Croazia la questione migranti viene affrontata raramente dalla popolazione. L’attivismo politico è raro. Chi deve attraversare il Paese lo fa di notte e di nascosto. Nei Balcani si respira un clima nazionalista in cui c’è poco conflitto sociale e poco confronto.
Infine la Grecia, culturalmente diversa dai paesi finora analizzati, non si può considerare un paese balcanico. Sul territorio sono presenti moltissimi gruppi, collettivi, associazioni. C’è una grande solidarietà, ma anche una destra molto presente, che è arrivata ad uccidere i migranti per strada: in particolare è famoso il gruppo “Alba dorata”, dichiarato criminale qualche anno fa.
Dal punto di vista governativo, fino al 2019 c’era Syriza che attuava politiche di esternalizzazione e degli hotspot, nonostante il governo fosse di sinistra radicale. Lasciava però passare alcune situazioni: ad esempio c’erano persone senza documenti per strada, e non si esercitava la stessa repressione di adesso, con a capo del governo la destra di Mitsotakis.
Fino al 2019 gli spazi occupati erano in realtà abitazioni per i migranti. Ora, sono stati sgomberati tutti. La polizia è simile a quella di un governo fascista: reprime con violenza e perseguita i migranti.
La politica migratoria è quella dei campi chiusi: vengono emanate leggi contro ONG che impediscono di accedervi. Si ricorre alla costruzione di muri, fili spinati, detenzioni e respingimenti. Tuttavia, c’è un pezzo di società che si schiera a favore dei migranti e organizza molte iniziative solidali, la questione migratoria è molto presente nel conflitto politico, a differenza dei Balcani.
Tra richiedenti e aventi asilo le cifre si attestano su centomila migranti: di questi, ventimila nelle isole Egee e gli altri sparsi tra i campi di Atene e quelli di Salonicco. La Grecia è stato il paese della crisi migratoria. Geo-politicamente è in una posizione particolare, funge da stato cuscinetto, ma è uno stato europeo, però è distante dal cuore dell’Europa.
A partire dal 2015 vige la politica degli “Hotspot” sulle isole, che vengono usate per trattenere i migranti, costretti a restare lì fino a quando il processo d’asilo non si conclude. Questo può durare due, tre , quattro anni.
Ora ci sono i “pushback”: ovvero, la polizia costiera greca che assieme a Frontex, guardia costiera europea, attorno alla costa greca respinge le persone che arrivano dalla Turchia. Se un migrante vuole attraversare il tratto di mare che divide la Turchia dalla Grecia o viene respinto dalla Guardia costiera turca, o viene respinto dalla guardia costiera greca. A volte i migranti vengono messi su delle zattere e abbandonati in mare, aspettando che la guardia costiera turca vada a riprenderli. A volte non vengono prelevati, oppure sono abbandonati in mare ammanettati. A volte infine, arrivano in un’ isola greca, ad esempio Lesbo e poi vengono riportati in Turchia.
Dal 2016, in ottemperanza agli accordi di Dublino, se un migrante riesce ad arrivare in Grecia poi ci resta a lungo: deve chiedere asilo ed è difficile rimanere invisibile, l’unico modo sarebbe passare per il confine di Evros, quello di terra. Quindi, per andarsene dalla Grecia ci sono rotte marittime, aeree – con documenti ufficiali o meno – , e quelle balcaniche.
Oggi si parla meno delle Rotte, perché? La situazione è migliorata? Com’è Lipa oggi?
La narrazione mediatica mainstream è tossica, funziona per eventi spot. Si parla di Lipa o Moria solo nel momento in cui ci sono incendi o eventi estremi e se ne parla come se fosse una crisi umanitaria improvvisa. Non è così perché si tratta di un meccanismo causa-effetto be più lungo e profondo. La situazione in Bosnia è la stessa. I game d’inverno si tentano meno perché sono molto pericolosi. Con l’aumento delle temperature le persone hanno ricominciato a provarli, ma vengono bloccati nel confine croato.
Il campo di Lipa è stato ricostruito in un altipiano, fuori da Bihac. Invece di chiudere i campi quando bruciano, vengono ricostruiti più grandi e più militarizzati di prima: ora è un mega hotspot. Le persone vengono sfrattate dalle Jungles – come vengono chiamati gli accampamenti informali nei boschi – e dagli squat, vengono sgomberati dalla polizia e chi ci stava viene portato nel campo. Con l’arrivo della stagione calda poi, vengono organizzate retate per portare i migranti nei campi con violenza, perché si vogliono controllare le persone e nasconderle dai turisti.
L’Europa è stata accusata spesso per la sua incapacità di intervenire e di gestire i flussi migratori, è sempre stato così? La sua posizione nel corso degli anni è mutata in qualche modo? Quali Paesi attuano una politica di intervento efficace?
Sul tema migratorio c’è una linea politica comune europea: si finanzia sempre di più Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nel 2021 riceverà più di un miliardo, è l’organo che riceve più fondi in assoluto.
C’è una linea quinquennale e chiara dettata dal patto sulla migrazione e l’asilo, proposta dalla commissione qualche mese fa. Si basa su accordi con paesi terzi per fare i rimpatri, accordi con paesi di transito per costruire campi e bloccare le persone ed esternalizzare frontiere, ancora, centri hotspot all’esterno delle frontiere, con procedure accelerate. In quest’ultimo caso si parla di stravolgimento del diritto d’asilo: verranno fatte delle procedure di entrata più veloci, per cui se si proviene da certi paesi si può chiedere asilo, se si viene da altri no e si viene quindi rimpatriati senza procedura regolare. Questo iter però, viola la Convenzione di Ginevra, perché il diritto d’asilo è individuale. Si tratta di una selezione degli ingressi: una vera e propria guerra ai migranti.
La politica europea sul tema è attuata sia dai singoli stati, sia dall’UE stessa. Nella storia recente non ci sono delle eccezioni o delle scelte politiche in controtendenza.
L’Unione Europea cosa potrebbe fare che non fa?
Alla base della dottrina europea c’è l’idea della deterrenza, per cui bisogna respingere le persone e usare metodi violenti in modo da scoraggiare la partenza. Non si spiega altrimenti, la brutalità.
E chi fa solidarietà nei confini è da perseguire perché incoraggia le persone a partire. Questa è una visione distorta. La libertà di viaggiare all’interno dell’Europa è un privilegio dei cittadini facenti parte dei paesi del patto Schengen. La mission europea esplicitata è quella di difendere lo stile di vita europeo, il “privilegio bianco” rispetto ai paesi che l’Europa ha storicamente distrutto, saccheggiato, colonizzato: popoli subalterni che arrivano e vorrebbero una vita normale in luoghi pacifici, oggi peraltro in decrescita demografica.
Sembra che i migranti mettano in discussione i fondamenti della nostra società, perciò rappresentano una minaccia. Questo discorso va oltre la difficoltà di integrazione: è una guerra ai migranti e ostaggio ai diritti essenziali.
L’unica voce fuori dal coro nel Parlamento europeo è la Sinistra al Parlamento europeo – GUE/NGL, partito che, assieme a Border Violence Monitoring Network, cura un database in cui tracciano tutti i pushback nei Balcani e monitora le violazioni dei diritti umani. Chiaramente però, è una minoranza nel grande gruppo di popolari e social-democratici, l’establishment europeo.
Esiste un modello di gestione dei flussi migratori efficace e alternativo a quello europeo?
Non c’è un modello alternativo che funziona o che è già stato sperimentato. Però, sappiamo che la Germania nel 2015 accolse più di un milione di richiedenti asilo. Inoltre, quell’ accoglienza sta dando risultati positivi: le persone sono state formate e si sono integrate. La migrazione in Germania non è un tema così divisivo: l’opinione pubblica ha apprezzato l’accoglienza. Certo, il Paese aveva le capacità economiche, una pianificazione specifica e controllata.
Le azioni da intraprendere dovrebbero avere come obiettivi almeno: la garanzia del diritto d’asilo, ristabilendo quanto dice la legge, chi viene dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Iraq ha diritto d’asilo. Poi, devono esserci dei canali sicuri per passare e per chiedere asilo, come i corridoi umanitari, protezione, voli aerei. A maggior ragione in Serbia e in Bosnia dove il numero di migranti non è così alto: si parla di 8 mila persone in Bosnia.
A livello globale invece, aprire le frontiere metterebbe in crisi lo stile di vita e il potere europeo, forse. Impossibile immaginare l’arrivo di milioni di persone. A livello politico, mantenendo lo status quo, si potrebbe gestire una via di mezzo. Una delle contraddizioni del nostro tempo è questa: la globalizzazione delle merci e del capitale e l’apartheid delle persone, per cui le merci circolano molto, mentre i migranti, che in quanto persone dovrebbero essere al centro del dibattito politico, vengono tenuti lontani il più possibile dalla Fortezza Europa.
Il Collettivo Rotte Balcaniche di cui fai parte ha lo scopo di tamponare una situazione emergenziale o ha dei progetti a lungo termine?
Il Collettivo Rotte Balcaniche Altovicentino è un gruppo che si muove all’interno di un contesto politico. Non facciamo azioni umanitarie, ma politiche-solidali concrete, aiutando le persone migranti bloccate sui confini. Lo scorso inverno, collaborando con varie associazioni, abbiamo raccolto tre tonnellate di oggetti e beni che abbiamo portato in Bosnia, ma anche in Val di Susa, Ventimiglia, nei vari confini della Fortezza Europa. Il Collettivo nasce da persone che mettono in pratica azioni: falegnami, carpentieri, artigiani, che possono migliorare la situazione fuori dai campi migratori, in particolare nei contesti informali, come gli squats.
Allo stesso tempo portiamo avanti un lavoro di sensibilizzazione attraverso manifestazioni e prese di parola pubblica, vorremmo organizzare anche delle mostre. Il 19 giugno faremo la Carovana per la libertà di movimento, andremo nel confine croato-bosniaco in massa, non per portare aiuti, ma per portare l’attenzione sul tema proprio nel posto dove avvengono le violenze, per mettere in discussione il confine.
Erica Marconato
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