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Moby Prince: trent’anni di misteri

4 ' di lettura

La Prima Repubblica ha segnato il nostro paese in negativo, un puzzle che cerca lentamente di comporsi ma che perde pezzi a ogni nuovo incastro. Il disastro della Moby Prince, a 30 anni di distanza, è ancora lontano dall’essere capito e risolto a livello giudiziario. E il fatto che i familiari delle 140 vittime abbiano scritto poche settimane fa una lettera ai capigruppo di Camera e Senato per una nuova commissione d’inchiesta, dimostra che ci sono ancora troppi misteri legati a quella notte di Livorno.

Un fatto, molti dubbi

Il 10 aprile 1991 il traghetto, all’uscita del porto con destinazione Olbia, entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Le fiamme divampano soprattutto sul Moby Prince, sia all’esterno che all’interno. Le operazioni di salvataggio, rese complicate dal fumo e dalle fiamme, non permisero un soccorso tempestivo ed efficace. I morti alla fine saranno 140, tutti della Moby e uno solo il sopravvissuto: il mozzo Alessio Bertrand. L’ipotesi della nebbia e la distrazione per la partita di Coppa Campioni Juventus -Barcellona furono ritenute fin da subito cause determinanti del disastro. Un errore umano della plancia di comando del Moby, smentito solo in un secondo momento. Secondo l’ammiraglio Sergio Albanese della capitaneria di porto di Livorno quella notte la nebbia era incredibilmente fitta. Linea smentita però, dalla stessa Agip Abruzzo, che nelle comunicazioni radio dichiarò espressamente “Livorno si vede con gli occhi” e dalle stesse immagini del TG1 di quella notte.

La Moby Prince la mattina dell’11 aprile. Le fiamme furono domate durante la notte.

La questione dei soccorsi e il decesso dei passeggeri del Moby continuano ad essere oggetto di dubbi. La morte, secondo la magistratura, sarebbe sopraggiunta mezz’ora dopo la collisione, a causa del monossido di carbonio sprigionato dall’incendio dentro la nave che impedì ai passeggeri di risalire. Ma le immagini di due cadaveri non carbonizzati, sul ponte esterno della nave la mattina dopo, confutano questa ipotesi. I livelli di intossicazione da monossido secondo le perizie risultavano molto bassi, meno del 10%. Dalle 22.25, orario della collisione, fino alle 3.30 della mattina, quando la nave ormai carbonizzata venne agganciata ai rimorchiatori, solo Bertrand viene recuperato. Dalle stesse perizie emerge che la quasi totalità dei passeggeri (136) è stata ritrovata in un’area anti incendio e con porte tagliafuoco, in grado di resistere per diverso tempo alle fiamme.  Ѐ probabile in effetti che queste persone abbiano resistito a lungo col fuoco alle calcagna, aspettando invano i soccorsi.

Il ruolo della Agip Abruzzo

L’altra protagonista della vicenda, la Agip Abruzzo, non ha mai chiarito la sua posizione la notte del disastro. Dal processo di primo grado di Livorno del 1997 emerge che la posizione attribuita alla petroliera e dichiarata dallo stesso comandante Superina quella notte è 43°29′.8 Nord e 10°15′.3 Est. Zona dove vige il divieto di pesca e di ancoraggio. Il materiale greggio all’interno delle cisterne è “Iranian Light”, dichiarato dalla stessa Agip Abruzzo. Dall’analisi del corpo di Vincenzo Esposito, l’unico trovato in mare e morto per annegamento, sono emerse tracce di nafta. Inoltre, al momento del recupero, la salma si presentava in uno strato denso di olio combustibile. La Moby però, non ha colpito i serbatoi della Agip ma la sala pompe, zona di trasferimento della nafta verso terze navi. Probabilmente, rientra nella dinamica una imbarcazione non segnalata nel radar del Prince che spiegherebbe anche la brusca manovra che ha portato il traghetto alla collisione.

La Agip Abruzzo ancora in fiamme il giorno successivo.

Si tratta di una ipotesi ma dalle comunicazioni radio di quella notte, in particolare nei primi messaggi di soccorso della Agip Abruzzo, il comandante Superina confonde alcuni elementi importanti. Scambia il traghetto per una bettolina (“Non sappiamo la bettolina che ci è venuta addosso cosa ha a bordo”) e confonde in un secondo momento il contenuto delle cisterne della petroliera. Inizialmente dichiara “noi abbiamo Iranian Light, Crude Oil” e in seguito alla domanda della capitaneria di porto “Cosa è incendiato in mare? La nafta?”- il comandante risponde: “la nafta è andata in mare e ha preso fuoco”. A questo punto la domanda della capitaneria si fa più specifica (“Ma sta uscendo nafta da voi o da una nave che vi è venuta addosso?”) e in risposta arriva una conferma che la nafta stesse uscendo dalla Agip. La confusione tra greggio e nafta lascia parecchie domande.

Un’altra incongruenza è la data di arrivo a Livorno registrata dalla capitaneria. La Agip Abruzzo parte da Sidi Kerir il 5 aprile e approda a Livorno il 9. In soli quattro giorni una petroliera di quasi 100 mila tonnellate copre la distanza tra l’Egitto e l’Italia. La compagnia di assicurazione Floyd, che monitorava i suoi spostamenti, nei documenti del porto egiziano fa registrare la partenza ai primi di marzo. Perché dichiarare un trasferimento in mare così veloce?

Le altre navi vicine alla Moby Prince e quel collegamento con la vicenda di Ilaria Alpi

Quella notte in rada a Livorno ci sono altre navi che offrono un quadro pieno di punti oscuri e collegamenti sconvolgenti. Una di queste, la Theresa, non compare sui registri portuali, rilascia una comunicazione radio la sera del 10 aprile alle 22.45. Venti minuti dopo la collisione dichiara: “Qui è Theresa ancorata a Livorno, stiamo uscendo”. Il perché Theresa abbia così tanta fretta di salpare da Livorno è ancora un mistero. La presenza della base americana di Camp Derby vicino a Livorno suggerisce la presenza di numerose navi “fantasma” il 10 aprile. Si tratta di navi adibite al trasporto di materiale bellico, operazioni che non risultano però autorizzate dalla prefettura. Dagli atti inoltre è emerso che due delle sei navi individuate, la Gallant II e il Cape Breton, entrarono in contatto radio tra di loro per allontanarsi dalla zona quella notte. Queste, al momento della collisione, risultavano le più vicine alla Agip Abruzzo e la Moby Prince. C’è poi la questione del peschereccio 21 Oktoobar II che unisce il filo di questa vicenda con una storia che accadrà tre anni più tardi. La Oktoobar infatti, presente in zona, è la stessa imbarcazione che nel 1994 resta coinvolta nell’intreccio relativo al traffico di armi tra Somalia e Italia. La giornalista Ilaria Alpi affrontò la questione di persona: l’inchiesta, arrivata probabilmente a un punto di svolta, si interruppe il 20 marzo del 1994, con l’assassinio della giornalista e dell’operatore Miran Hrovatin a Mogadisco.

Risposte parziali

La commissione d’inchiesta nel 2018 è riuscita parzialmente a risolvere alcune questioni fino ad allora senza risposta. Non c’è stata nessuna nebbia quella notte di aprile. L’equipaggio della Moby non è stato distratto dalla partita di calcio. I soccorsi non hanno agito con tempestività per salvare i passeggeri e questi ultimi non sono morti tutti dopo mezz’ora dopo l’impatto. Queste sono alcune delle certezze che confutano altre menzogne e i depistaggi finiti nei fascicoli dei primi due processi del 1991 e del 2006. Ancora troppe però, sono le domande e i punti oscuri in questa vicenda che resta in un limbo di silenzi e tante bocche cucite. C’è bisogno invece di continuare e provare ad alzare la voce, per tutte le 140 vittime della Moby Prince e per quella verità che continua a rimanere intrappolata ancora dopo trent’anni.

Andrea Cicalò

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