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Tra il 1861 e il 1985 dall’Italia partirono quasi 30 milioni di persone. Dopo l’Unità d’Italia ebbe inizio la Grande Emigrazione. La causa principale fu la povertà in mancanza di terra da coltivare, specialmente nell’Italia meridionale, l’ostilità dello Stato italiano verso gli anarchici e il problema della criminalità organizzata. Un’altra forte causa dello spostamento fu la sovrappopolazione nata dal miglioramento delle condizioni economiche del paese nei primi decenni dopo l’unificazione. Ciò spinse le nuove generazioni, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, a raggiungere soprattutto l’ America: gli Stati Uniti a nord, Argentina e Brasile nell’America meridionale, paesi con necessità di manodopera.
Verso un nuovo mondo
L’emigrazione non era regolata dallo Stato: a occuparsi dei migranti erano degli agenti, chiamati “padroni”, spinti dal proprio ritorno economico. Non erano estranei ad abusi, almeno finché non fu emanata la prima legge sull’emigrazione del 1888, con l’obbiettivo di avere il controllo statale degli organismi di emigrazione. Successivamente, nel 1901, fu creato il Commissariato dell’emigrazione che si preoccupava del benessere degli emigranti prima della partenza e dopo il loro arrivo, delle leggi che discriminavano i lavoratori stranieri (come la Alien Contract Labor Law degli Stati Uniti) e di fermare per un po’ l’emigrazione in Brasile, dove molti erano diventati schiavi nelle piantagioni di caffè, con un decreto ad hoc che impediva la “schiavizzazione” dell’emigrato italiano.
I migranti
Due terzi della popolazione che lasciò l’Italia tra il 1870 e il 1914 era costituita da lavoratori senza una specializzazione precisa e per lo più contadini. Pensavano di partire quasi sempre per un periodo temporaneo, così era solitamente un uomo in famiglia a fare la valigia. Dopo le prime settimane nel nuovo mondo, riuscendo a lavorare, rimandavano in patria parte del denaro guadagnato, usato poi da parenti e amici per acquistare i biglietti per partire a loro volta. Molti morivano in viaggio, mentre chi arrivava doveva subito affrontare l’integrazione. Negli Stati Uniti era diffusa l’opinione che gli emigrati italiani portassero malattie. All’arrivo nell’ufficio immigrazione seguivano diverse visite mediche: chi non superava i controlli veniva marchiato con una X sui vestiti e rimandato indietro. Sui documenti rilasciati agli italiani, accanto alla scritta “white”, che indicava il colore della pelle, c’era un punto interrogativo: un forte indice di razzismo che gli italiani erano costretti a subire dalla società americana. Per questa ragione preferivano ghettizzarsi in quartieri di soli italiani, rallentando il processo di integrazione. Si diceva che “gli italiani non sono bianchi, ma nemmeno negri”, l’arrivo dell’italiano era definito “l’invasione della pelle oliva”, oppure erano indicati come “una razza inferiore” e “una stirpe di assassini, anarchici e mafiosi”.
La seconda fase
Nel 1920 partirono dall’Italia 614.000 persone. Le difficoltà economiche del paese del primo dopoguerra e i gravi conflitti interni portarono anche, nel 1922, alla nascita del fascismo. Da questo momento ci fu un rallentamento del flusso di migrazione dall’Italia, voluto dal regime per contenere lo spopolamento. Tuttavia, nei primi cinque anni del regime, 1,5 milioni di italiani riuscirono a lasciare l’Italia. In questa nuova fase di emigrazione, a differenza della precedente, furono di più le famiglie che per intero si trasferivano all’estero, comprese donne, bambini e ragazzi.
Europa
Uno spostamento importante avvenne tra la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, e gli anni ’70 del XX secolo. Ebbe come meta le nazioni europee in crescita economica. Gli italiani si diressero principalmente in Svizzera, Belgio, Francia e Germania. Considerate mete temporanee, erano i paesi dove lavorare e guadagnare per assicurarsi un futuro nella propria terra d’origine. In effetti, negli anni ’70 tornato a casa moltissimi italiani.
Emigrazione interna
Avvenne tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, interessando i migranti delle regioni non ancora annesse alla patria, come il Trentino-Alto Adige e il Venezia Giulia, verso il Regno d’Italia. L’emigrazione era spesso stagionale e soprattutto invernale, quando i contadini non potevano coltivare la terra. C’è poi “l’esodo istriano”, la diaspora della maggioranza di cittadini di etnia e lingua italiana dai territori del Regno d’Italia precedentemente occupati dall’esercito jugoslavo del maresciallo Tito e successivamente annessi alla Jugoslavia. Il fenomeno, successivo ai massacri delle foibe, coinvolse coloro che non si fidavano del nuovo governo jugoslavo.
L’emigrazione continuò, questa volta estesa in tutta Italia, durante l’epoca fascista. Il regime di Mussolini era contrario a questi spostamenti, infatti proclamò delle leggi per ostacolarlo ma senza successo. In quel momento i flussi migratori interessavano gli spostamenti dalle campagne alle città. Con la caduta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale le migrazioni interessarono il trasferimento da una regione all’altra. Tale fenomeno divenne più forte quando l’Italia conobbe una crescita economica tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il cosiddetto “boom economico”. La crescita riguardava per lo più le regioni del Nord Italia dove nacquero molte industrie: lì finirono i contadini del Triveneto e dell’Italia meridionale. Le cause principali degli spostamenti erano le dure condizioni di vita dei migranti, l’assenza di un lavoro stabile, la povertà, la scarsa fertilità delle terre, la frammentazione delle proprietà terriere e l’insicurezza causata dalla criminalità organizzata, soprattutto in Italia meridionale. Ciò aumentò il divario economico tra il Nord e il Sud.
Oggi, domani e il Covid-19
A cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo millennio il flusso migratorio italiano all’estero si attenua. Tuttavia, a causa della grave crisi economica iniziata nel 2007, gli italiani tornano a spostarsi. In particolare i giovani, soprattutto laureati, danno vita alla narrazione della cosiddetta “fuga di cervelli”. Le mete interessate sono per lo più la Germania, Regno Unito, Francia, Svizzera, Canada e Stati Uniti. Oggi, in realtà, ad espatriare non sono solo giovani e laureati, ma anche ultracinquantenni. Secondo uno studio Istat negli ultimi dieci anni si sono trasferiti all’estero 816.000 italiani e in quindici anni la mobilità italiana è aumentata del +76,6%, dato che allarma.
Diversi studi evidenziano che oltre il 20% dei giovani italiani non studia e non lavora (NEET). Numeri preoccupanti emergono dagli studenti stranieri che scelgono l’Italia per studiare: sono solo il 7%. E’ possibile che le poche risorse impiegate rendano il sistema universitario italiano poco attraente, probabilmente a causa dei rendimenti attesi. Infatti, in Italia lo stipendio tende ad aumentare in base all’anzianità compromettendo il lavoro dei più giovani e favorendo l’esodo dei ricercatori italiani all’estero, comportando un impoverimento generale, dal punto di vista culturale ed economico.
Nei prossimi mesi, a causa della pandemia di Covid-19, si stima che la situazione di crisi peggiorerà notevolmente. Il lockdown generale dei mesi scorsi, la chiusura forzata delle attività, la ridotta mobilità e gli interventi in ambito monetario e fiscale hanno messo a dura prova l’economia del paese. A fine 2021 la perdita dei posti di lavoro potrebbe interessare circa 1,9 milioni di lavoratori.
Chiara Paini
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