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Parafrasando molto liberamente Il Mago di Oz, oggi possiamo dire che anche un tweet ha un valore. Anzi, possiamo dire che ora il primo tweet di Jack Dorsey – il barbuto fondatore del social – vale quasi 3 milioni di dollari, e che il suo proprietario è un certo Sina Estavi, CEO della società di blockchain Bridge Oracle. Se tutta questa storia sembra assurda e quasi inventata, non aiuterà sapere che il signor Estavi, nonostante guidasse l’asta con 2 milioni e mezzo, ha deciso di rilanciare all’ultimo per escludere chiunque altro, dimostrando tutta la voglia che aveva di accaparrarsi questo NFT, o Non-Fungible-Token.
Cosa sono gli NFT (o Beni-Non-Fungibili)
Se applicassimo la definizione di Non-Fungible-Token al mondo reale, potremmo dire che si tratta di esemplari di una serie a cui viene dato un valore intrinseco, e che quindi non valgono più come qualsiasi altro oggetto della serie stessa. Per fare un esempio, l’ultimo numero di Dylan Dog comprato in un’edicola di Roma è esattamente identico a una copia acquistata a Milano; idealmente, i due proprietari possono scambiarsi il fumetto a cuor leggero perché sono “beni fungibili”, e uno vale l’altro – a parità di condizioni, ovviamente, perché un fumetto rovinato non eguaglia un fumetto integro. Se uno dei due fumetti venisse autografato dagli autori però, quella copia in particolare non varrebbe più come l’altra, ma acquisterebbe un valore intrinseco dato – appunto – dalle firme. Lo stesso concetto si può applicare a qualsiasi cosa: una pallina da baseball normale e una firmata da un giocatore, un tovagliolo di carta pulito e uno sporco del rossetto di Lady Gaga… eccetera. Se nel mondo reale è facile stabilire cosa è un bene fungibile e cosa no – capire il valore di un fumetto firmato o raccogliere il tovagliolo di una cantante caduto per terra sono valutazioni immediate –, quando si parla di tweet e mondo digitale non è così semplice. Purtroppo, poi, gli NFT propriamente detti esistono solo qui.
La blockchain
L’unico modo per garantire l’autenticità e il valore di un bene virtuale, al momento, è la blockchain – letteralmente “catena di blocchi”. Questa tecnologia viene usata soprattutto per le transizioni in bitcoin, e funziona come una specie di dogana in più parti: ogni passaggio di criptovaluta viene controllato e registrato da ciascun “blocco” che forma la “catena”, garantendo sicurezza e calcoli così complessi da rendere pressoché impossibile truffare il sistema. Tutto questo è possibile perché i dati registrati e crittografati nei blocchi non possono essere modificati senza modificare anche tutti gli altri – e una reazione a catena simile non passerebbe inosservata.
Grazie alla blockchain, per esempio, Jack Dorsey può “coniare” un NFT del suo primo cinguettio, cioè memorizzare in maniera permanente e crittografata che quel tweet è il suo tweet originale, e che ora un certo Sina Estavi lo possiede. Tutto questo, ovviamente, non è esente da implicazioni interessanti.
Il lato oscuro
Un vantaggio di questa tecnologia è permettere agli artisti digitali di poter firmare e attribuire valore alle loro opere, rendendole diverse dalle copie – così come un quadro di Picasso non è una stampa di un quadro di Picasso –, ma i lati positivi finiscono qui. Innanzitutto, coniare un NFT non significa possedere quel bene, ma semplicemente fregiarsi del titolo di “possessore dell’autentico oggetto originale”. Pochi giorni fa, per esempio – proprio grazie alla tecnologia blockchain –, l’NFT della famosa gif del gatto volante e pixellato che si lascia dietro un arcobaleno è stato venduto per circa 600mila dollari. Il tizio che ha fatto l’acquisto, però, non possiede fisicamente la gif, perché questa rimane visibile sul Web e condivisibile da chiunque. Ancora: qualche tempo fa, lo sviluppatore del videogioco The Castle Doctrine ha reso NFT i dipinti che compaiono nel gioco senza il permesso degli artisti che li avevano realizzati, aggirando e manipolando di fatto la loro proprietà intellettuale.
In pratica, coniare un NFT e poi venderlo non significa scambiarsi l’oggetto, ma un contratto digitale di 0 e 1 che concettualmente potrebbe causare non pochi problemi. Se il proprietario di un NFT non possiede il copyright dell’opera né l’opera in sé per esempio, può comunque rivendere il token alle spalle dell’autore, così come hanno fatto l’azienda americana Veve e la DC Comics con delle statue digitali di Batman in edizione limitata di cui la vedova del disegnatore non sapeva niente (tralasciando il fatto che la DC non è nuova a questo genere di cose). Il fatto che qualsiasi oggetto digitale possa diventare un Non-Fungible-Token – vedi il primo tweet di Dorsey – significa che anche questo articolo potrebbe esserlo; tuttavia, non esistendo una certificazione della certificazione NFT, chi scrive potrebbe vedere il suo pezzo venduto e comprato all’infinito senza sapere chi per primo l’ha messo sul mercato.
Collezionismo o capitalismo?
Sorge spontaneo chiedersi che senso ha tutto questo. Collezionare fumetti autografati, scarpe in edizione limitata o statue di Batman ha un suo significato – sono oggetti materiali che si possono toccare ed esporre in casa –, ma un blocco di dati? Per un collezionista, probabilmente, fregiarsi del titolo di “unico possessore dell’originale” non ha lo stesso valore dell’oggetto in sé, quindi perché averlo a tutti i costi? La risposta più semplice potrebbe essere che non si tratta di collezionismo “classico”. Finora infatti, chi ha comprato NFT a cifre milionarie è più che altro un capitalista che rivenderà a prezzi più alti – Sina Estavi possiede una compagnia di blockchain –, e questo perché il valore non viene costruito dalla Storia – così come potrebbe essere per un quadro di Picasso –, ma proprio da chi quell’oggetto lo deve vendere. In un mondo così vasto, iperconnesso e guidato da un mercato tanto globale quanto sempre più volatile, non ci stupiremo quando qualcuno vorrà spendere qualche bitcoin per il tweet “U” di Ornella Vanoni.
Alessandro Mambelli
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