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La nuova rivoluzione Iraniana passa per lo sport. Il caso di Samira Zargari
Provate a pensare di essere una commissaria tecnica di una squadra sportiva. Una professionista di tutto rispetto chiamata a rappresentare la propria nazione d’origine in una competizione mondiale. Ora provate a pensare di dover rinunciare all’incarico solo perché vostro marito non ve lo permette. Ecco, a noi sembrerebbe un’assurdità dover rifiutare un lavoro solamente per il volere di un uomo, ma in alcuni stati questo non solo accade spesso ma è consentito dalla legge.
E’ il caso di Samira Zargari, la head coach della squadra iraniana femminile di sci alpino, costretta a non accompagnare proprie atlete ai Mondiali di Cortina 2021. Questo a causa del rifiuto del marito che non ha consentito il suo viaggio in Italia. A permettere tutto ciò è un diritto coniugale stabilito dalla Legge islamica, imposta nel paese a partire dal 1979. Per ottenere il passaporto una donna ha bisogno del permesso del marito, ma quando anche sia in possesso di un documento di espatrio lo stesso marito può impedirle di lasciare il paese.
In passato è già accaduto ad altre atlete della scena sportiva iraniana. Nel 2015 questa triste sorte è toccata a Niloufar Ardalan, capitana della nazionale di calcetto. Il marito – un giornalista sportivo – non le aveva permesso di partire per partecipare ai Mondiali in Guatemala. Le proteste in seguito a questo avvenimento furono così violente che dovettero intervenire e un giudice permesse alla calciatrice di lasciare il paese, dichiarando nullo il veto del coniuge.
In Iran accadono spesso proteste contro le normative che limitano i diritti delle donne, particolarmente in seguito a vicende sportive. Un evento molto tragico e significativo è stato il suicidio di Sahar Khodayari. La trentenne, soprannominata “Blue Girl” nel 2019 si suicidò dandosi fuoco per protestare contro il divieto per le donne di entrare negli stadi. Questo gesto provocò un’ondata di proteste senza precedenti nel Paese, al punto che le autorità furono costrette a scendere a compromessi: lasciarono entrare per una partita della nazionale con la Cambogia 3.500 donne. Un numero esiguo rispetto la capienza dello stadio Azadi di Teheran (80mila posti), ma pur sempre un piccolo grande segno di cambiamento.
A Tokyo le donne si riprendono le Olimpiadi: 12 nuovi membri per il consiglio direttivo.
Il comitato organizzatore di Tokyo 2020 ha comunicato che è pronto a inoltrare la richiesta di 12 donne all’interno del consiglio direttivo. Questa notizia anticipata dai media nipponici spiega che la decisione fa parte del nuovo obiettivo del comitato presieduto dalla nuova presidentessa Seiko Hasimoto, dopo le dimissioni del suo predecessore, Yoshiro Mori, accusato di comportamento sessista. Mori era finito nella bufera dopo aver detto: “Le riunioni a cui partecipano troppe donne in genere vanno avanti più del necessario”. Una frase riferita alla proposta del ministero dell’Istruzione nipponico sulla eventualità di estendere le nomine nel consiglio dei Giochi a un maggior numero di donne.
La frase, naturalmente, aveva immediatamente sollevato imbarazzo e disappunto tra i presenti. Dichiarazioni non nuove per Mori, già noto per la tendenza a fare gaffe di questo genere sin dal tempo della sua stagione da capo del governo a inizio anni 2000. Già allora aveva tentato, fra l’altro inutilmente, di alleggerire alcune interviste in cui riconosceva di essersi meritato “una lavata di capo” pure in casa: dalla propria moglie e figlia. Tuttavia questo non l’ha portato ad evitarsi un’ulteriore spiacevole figuraccia – che tra le tante cose – gli è costato anche l’incarico.
L’attuale board è composto da 34 membri, all’interno del quale le donne sono appena 7. La nuova riforma prevedrebbe un incremento di 45 persone con la presenza femminile assestata a 19, equivalente a una rappresentazione del 42% dall’attuale 20%. Il comitato organizzatore dei Giochi non ha ancora reso pubblica la lista intera dei nomi, ma ha anticipato che tra di essi ci saranno alcune personalità come: Naoko Takahasi (vincitrice della maratona di Sydney nel 2000) e Kuniko Obinata (due volte campionessa paraolimpica in scii alpino).
E in Italia a che punto siamo? Via al professionismo femminile.
In Italia fortunatamente questo non succede, seppur sia ancora troppo presto parlare di parità di genere dentro e fuori il campo. Basta dare uno sguardo ai giornali sportivi, in particolare alla stampa online, per rendersi conto che l’immagine della donna nello sport è marginale. Non si parla quasi mai dei meriti professionali o dei risultati sportivi soffermandosi invece sull’aspetto fisico, al look o al gossip.
Sono molti gli stereotipi e i pregiudizi che aleggiano attorno alle sportive, considerate mascoline, poco femminili, inferiori e sempre meno capaci dei colleghi uomini. Alcuni sport come il rugby oppure il pugilato non vengono visti adatti alle donne, per non parlare della Formula 1 – d’altronde uno dei detti più sessisti con cui siamo costretti a convivere è proprio “donna al volante pericolo costante”. Questo porta le squadre femminili a essere relegate a una scarsissima visibilità proprio rispetto a sport predominanti dal genere maschile, riducendo lo spazio dedicato alle atlete nonostante le vittorie e i risultati.
Tuttavia il 2021 si apre con una notizia più che positiva per le atlete del Bel Paese. E forse – ci sarebbe da dire – era ora! Arriva l’approvazione storica della riforma dello sport. Lo scorso 26 febbraio il Consiglio dei Ministri ha dato ufficialità al testo di legge, con i 5 decreti inseriti all’interno. Questi ultimi diventeranno in seguito norme legislative e cambieranno radicalmente il mondo dello sport. Tra questi troviamo l’abolizione del vincolo sportivo e il via al professionismo femminile.
Fino all’anno scorso la sproporzione tra uomini e donne negli ambienti federali e societari e negli staff tecnici era abnorme. La legge 91 sul professionismo sportivo del 1981 infatti imponeva alle sportive il “dilettantismo” senza alcun riconoscimento dei diritti di base relativi al lavoro subordinato, ovvero: assenza di tutela sanitaria, nessuna garanzia ai fini pensionistici, nessuna tutela per rischi assicurativi. Fino ad oggi, l’unica soluzione plausibile per garantirsi un futuro da atleta alla fine della carriera agonistica è accedere ai corpi militari statali che assicurano uno stipendio, il diritto al trattamento di fine rapporto e alla pensione.
L’approvazione di questi nuovi decreti segnano una data storica per lo sport italiano. Un traguardo atteso, sudato e guadagnato – arrivato però con largo ritardo. Ma d’altronde, forse meglio tardi che mai. Finalmente le ragazze hanno la possibilità di far diventare la propria passione un lavoro esattamente come i propri colleghi. Il raggiungimento del professionismo femminile significa molto per lo sport in “rosa” – perché “professionismo significa tutele”. Tutele tipiche del mondo del lavoro, che fino ad oggi però nello sport femminile non esistevano.
Parliamo più precisamente di contributi previdenziali ai fini pensionistici (al 33% per l’Inps), tutele assicurative (Inail), salario minimo per le giocatrici e tutela per la maternità. In poche parole si tratta delle stesse tutele che regolano il professionismo maschile, con l’ovvia aggiunta della maternità – seppur parziale – nel caso delle donne. Fino a due anni fa in Italia infatti non era assolutamente prevista la maternità per nessuna sportiva – grande mancanza dal momento che questo dovrebbe essere da sempre un diritto fondamentale per una donna che vive di sport.
Perché il calcio non è cosa solo per uomini – ma anche per donne, sì anche mamme – che ci crediate o no.
Francesca Confalonieri
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