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Un approfondimento sulle vicende recenti e la testimonianza di Hazal Korkmaz, attivista di origini turche, che ci ha spiegato da vicino i disordini e le violenze di questo periodo
Violenze fisiche e psicologiche, irruzioni in casa, violazioni dei diritti umani. No, non parliamo di atti nei confronti di terroristi, parliamo di studenti. Ciò che è successo in Turchia nelle ultime settimane è l’ennesima dimostrazione di un regime violento che viola diritti umani. Ma facciamo un passo indietro, partendo dall’inizio.
Il primo gennaio 2021 il presidente Erdoğan ha nominato rettore dell’Università Boğaziçi un membro esterno: Melih Bulu, politico vicino al suo partito. Secondo l’opinione di Emma Sinclair-Webb, direttrice del bureau di Istanbul di Human Rights Watch, questa decisione mira a porre un controllo sul mondo universitario, limitando la libertà di espressione.
Le proteste pacifiche di studenti, professori ed ex alunni sono iniziate il 4 gennaio, richiedendo le dimissioni del rettore e il diritto di scegliere i rettori universitari. Protestare è un diritto, ma la risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua. Il giorno seguente alle 3 del mattino il procuratore di Istanbul ha emesso mandati di arresto, ordinando, inoltre, la confisca di cellulari e computer di almeno 28 studenti. La polizia intorno alle 5 ha fatto irruzione in 17 case, alcune sbagliate, sfondando porte e muri, nel tentativo di arrestare coloro che avevano preso parte alle proteste. La solidarietà si è diffusa rapidamente in altre 38 città della Turchia, dove ci sono state manifestazioni di sostegno nei confronti degli studenti.
Lo sviluppo della vicenda
La situazione è ulteriormente peggiorata a partire dal 29 gennaio. Il casus belli è stato individuato nell’allestimento di una mostra d’arte da parte degli studenti nel campus di Boğaziçi. L’opera raffigurava la Kaaba, luogo sacro per i musulmani, e una creatura mitologica metà donna e metà serpente. A ciò gli studenti hanno aggiunto bandiere LGBT ai quattro lati dell’opera. L’analisi dell’artista evidenzia che il serpente, simbolo del primo peccato, si unisce alla figura di Şahmeran, combinazione dell’identità delle donne. In questo lavoro si sostiene la lotta profonda delle donne anatoliche. Il significato che si intende trasmettere è che se la libertà di donne e animali fosse al centro, l’immagine tanto agognata del Paradiso sarebbe il mondo stesso.
La repressione è stata dura ed immediata. «Solo violenza fin dal primo giorno, nonostante la protesta fosse pacifica e all’inizio si limitasse all’ambito universitario di Boğaziçi» ci informa Hazal Korkmaz. Le autorità hanno arrestato due studenti che appaiono nel video della mostra insieme ad altri due presunti organizzatori. Inoltre la polizia ha fatto irruzione in una sala utilizzata da un club studentesco LGBT confiscandone bandiere e libri. Hazal ci racconta che alcuni studenti, mentre rientravano nelle loro case, hanno avuto la sensazione di essere seguiti, sono quindi andati alla polizia. Una volta arrivati lì hanno scoperto che erano proprio i poliziotti a seguirli e sono stati arrestati. Il timore iniziale di vedere limitata la loro libertà si è confermato il 2 febbraio, quando il nuovo rettore ha chiuso il club. Gli studenti sono stati accusati di blasfemia, incitamento all’odio e all’inimicizia, additati come “pervertiti” sui social.
Le risposte della polizia non si sono fermate. Il 1° febbraio hanno impedito agli studenti dentro al campus di uscire e a quelli fuori di entrare. Il 2 febbraio la violenza è aumentata, di quel giorno circolano video e immagini di studenti con i volti coperti di sangue, con i denti rotti, presi a calci nonostante non stessero opponendo resistenza.
«La situazione in questi giorni è più tranquilla perché le proteste si sono interrotte, seppur solo momentaneamente» afferma Hazal.
Cosa ha fatto il presidente?
Il presidente e gli alti funzionari hanno apertamente sostenuto la risposta violenta della polizia alle proteste. Erdoğan ha definito gli studenti “pigri e ottusi”, ha suggerito poi che avessero legami con il terrorismo.
È in atto quella che Hazal ha definito una vera e propria «distruzione accademica», con importanti ripercussioni sui diritti umani e sulla libertà di parola. Parlando di “distruzione” non si riferisce esclusivamente alle repressioni violente delle ultime settimane, ma in generale al sistema accademico turco. Infatti, tra il 2016 e il 2018 il governo, per mezzo di decreti legge, ha chiuso 15 università private, licenziato oltre 6800 accademici e perseguito centinaia di docenti per aver firmato una petizione che chiedeva una risoluzione pacifica del conflitto curdo. A loro è stato impedito di lavorare nelle università, sono stati cancellati i loro passaporti. Il presidente ha nominato diversi ex membri dell’AKP come rettori di importanti università nel corso degli ultimi anni. I fatti mostrano che le rivolte del 2021 sono quindi solo l’ultimo tassello del puzzle che Erdogan sta costruendo.
Le detenzioni
Ad oggi si contano più di 560 detenzioni di manifestanti, tra le più recenti ricordiamo Beyza, che rischia 8 anni solo per aver coordinato i gruppi whatsapp del collettivo universitario.
Le loro testimonianze, come si legge dal report redatto da Yiğit Oymak, non lasciano indifferenti.
Burak Çetiner, studente dell’Università Boğaziçi tra gli arrestati il 5 gennaio, ha dichiarato: «Sono andato alle proteste il 4 gennaio e la polizia ha fatto irruzione nella casa dove vivo con mia madre e mio padre, all’alba del 5 gennaio. Ci siamo svegliati al suono dei martelli alla porta. Gli agenti di polizia in tenuta antisommossa ci hanno spinto a terra e puntato le pistole alla testa. Hanno perquisito la mia stanza, mi hanno confiscato il cellulare e poi arrestato. Durante la custodia, la polizia ci ha ammanettato così strettamente che molti di noi hanno avuto lividi sui polsi.» Havin, studente LGBT arrestato, ha affermato «Dentro il mezzo di polizia ci picchiavano in testa con le manette. Tutti i poliziotti poi sono scesi, tranne uno che è rimasto sulla soglia. A un certo punto il poliziotto rimasto dentro ha fatto cadere una bomboletta che conteneva del gas. Abbiamo iniziato a sentirci male, ma per diversi minuti ci hanno impedito di scendere.»
Possiamo fare qualcosa?
Queste vicende per noi, che viviamo in un paese democratico in cui vigono libertà di pensiero e parola, sono difficili da concepire a pieno. La preoccupazione che la polizia piombi in casa nostra di notte perché abbiamo preso parte ad una manifestazione non ci sfiora. Come fare, però, per aiutare studenti della nostra età a far valere diritti che per noi sono scontati? «Partire dal piccolo per poi arrivare a pensare in grande. Parlarne. Non rimanere indifferenti di fronte a fatti che toccano da vicino la Turchia, ma che in realtà riguardano ognuno di noi in prima persona. Non ci rendiamo conto di quanto la situazione sia diversa da qua, di come la libertà di pensiero non si possa dare per assodata ovunque. Dobbiamo parlarne tanto, con amici, conoscenti, diffondere per far nascere la consapevolezza di cosa succede a poca distanza da noi. Dobbiamo dare sostegno, farci sentire» afferma Hazal Korkmaz.
Micol Maccario
Purtroppo come in Turchia sta accadendo anche i Birmania. La libertà di espressione viene sempre meno e gli Stati come l’Italia che hanno interessi economici nei confronti di questi paesi fanno fatica a prendere le distanze da certe pratiche di repressione.