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Eddi Marcucci: dalla guerra contro l’Isis alla sorveglianza speciale

4 ' di lettura

Cosa succede in Italia a una donna che ha rischiato la vita per combattere l’Isis? Le viene tolta la libertà. Maria Edgarda Marcucci, soprannominata Eddi, è sottoposta dal 17 marzo 2020 alla misura di sorveglianza speciale, confermata nuovamente a dicembre, in quanto individuo portatore di pericolosità sociale. «Mi domando di quale società stiano parlando», si chiede più volte durante le interviste. La sua colpa è quella di aver speso tra il 2017 e il 2018, all’età di 26 anni, nove mesi in Siria unendosi alle YPJ, le Unità di Protezione delle donne, formazioni che hanno combattuto l’Isis e resistito all’invasione dell’esercito turco. Tornata in Italia dopo aver difeso la causa curda, ha continuato la lotta attiva contro la violenza di genere, il precariato, la vendita di armi italiane alla Turchia, partecipando pacificamente a manifestazioni e proteste.

Pena senza colpa

Confino nel proprio comune, divieto di rincasare dopo le ore 21 e di lasciare l’abitazione prima delle 7, divieto di entrare in qualsiasi esercizio pubblico dopo le ore 18, divieto di partecipare a pubbliche riunioni, ritiro di patente e passaporto, divieto di espatrio, divieto di contatti con persone che hanno processi in corso. E obbligo di portare sempre con sé quel libretto rosso, la carta precettiva, dove vengono annotati tutti i suoi spostamenti. Questa è la quotidianità di Eddi, in quanto individuo sottoposto a sorveglianza speciale. Per ora per due anni, ma prorogabili.

Ma quali reati ha compiuto per ricevere questo trattamento? Nessuno. Eddi è incensurata. La sorveglianza speciale, le cui origini risalgono al periodo fascista quando era utilizzata per reprimere dissensi e possibili ribellioni, è infatti una misura preventiva, non una pena imposta a chi si ritiene essere colpevole di un qualche reato: «non c’è un fatto attorno al quale un giudice deve pronunciarsi se c’è colpevolezza o innocenza. Si tratta di un sospetto, di una previsione su un comportamento», spiega Eddi ai microfoni di Border Radio.

La vicenda giudiziaria

Eddi non è stata l’unica italiana ad arruolarsi negli eserciti schierati contro l’Isis. Non tutti sono tornati. Si ricorda Lorenzo Orsetti, morto a 33 anni combattendo nelle Unità di Protezione Popolare, le YPG, esercito gemello alle YPJ. Erano sei gli ex volontari nelle forze curde contro lo Stato islamico ad essere proposti per la misura della sorveglianza speciale: uno in Sardegna e cinque a Torino, una donna e cinque uomini. Tra questi, dopo tredici mesi di processo, alla fine l’unica pericolosa era proprio Eddi.

Così ha stabilito la procura di Torino, la stessa che si è resa nota per le condanne a Dana Lauriola e Nicoletta Dosio, arrestate per aver espresso apertamente il proprio dissenso verso la realizzazione di infrastrutture per l’alta velocità ferroviaria, partecipando attivamente ma pacificamente alla lotta del movimento NO TAV.

La vicenda giudiziaria di Eddi e i suoi compagni è partita con un’affermazione della Pm Emanuela Pedrotta che ha destato non poco scalpore, in quanto ha definito “terroriste” le Unità di Protezione Popolare rendendo equipollenti le posizioni di chi si è schierato contro e di chi si è schierato con l’Isis. I primi ad essere esclusi dal processo sono Davide Grasso e Fabrizio Maniero, nei confronti dei quali si ritiene che aver combattuto in Siria “non incide sulla pericolosità e le condotte successive”, spiegano i giudici.

Il punto cardine della vicenda sembrava essere inizialmente l’addestramento militare ricevuto dai soggetti proposti, istruiti all’uso delle armi. Sono stati tanti a esprimere i propri dubbi a riguardo, sia perché sono migliaia le persone in Italia ad aver ricevuto un addestramento militare, sia perché Jacopo Bindi, sul banco degli imputati, in Siria aveva prestato solamente servizio civile e di esperienza militare non ne aveva acquisita. Così anche per lui e Paolo Andolina cade la richiesta di sorveglianza speciale.

Una donna, un pericolo

Rimane solo Eddi ad essere pericolosa, ma la Siria non c’entra più. Non si parla della guerra, ma della sua partecipazione a un presidio di fronte a un ristorante in difesa di lavoratori che non venivano pagati, a una manifestazione in occasione del primo maggio, nonostante in quei giorni Eddi risultasse all’estero, a un presidio contro la vendita di armi italiane alla Turchia. In aggiunta alla sua personalità definita «instabile» senza perizie o motivazioni e a commenti sul suo corpo e sulla sua camminata decisa. È l’unica tra i cinque per cui viene portato il modo di muoversi come elemento probatorio di pericolosità sociale.

Eddi non aveva mai ricevuto denunce per le manifestazioni a cui aveva partecipato, ma non si era fermata dopo aver ricevuto la minaccia della sorveglianza speciale e l’avvio del procedimento giudiziario. «Non importa cosa fai, importa chi sei»: è questa la conclusione che trae una volta ricevuto l’esito del processo, trovando l’appoggio di tante e tanti, tra cui in prima linea i suoi co-proposti.  «La donna che si batte pubblicamente a viso aperto per dei valori quantomeno legittimi, e secondo me condivisibili, subisce questo tipo di misure senza rappresentare non solo un pericolo per la società, ma invece rappresentando una risorsa per la società» commenta Davide Grasso, che continua senza sosta la battaglia per la sua amica.

Eddi sorveglianza speciale

Senza voce

A complicare il quadro la disattivazione dei profili di Eddi sui social network, dei quali da subito si era servita per raccontare la propria vicenda. Così come sono stati bloccati, senza spiegazioni, sono poi stati riattivati. I social sono uno strumento molto importante per Eddi, non potendo partecipare a riunioni pubbliche per via della sorveglianza speciale a cui è sottoposta. A causa di questa misura ha dovuto rinunciare a presenziare a diversi incontri che l’avrebbero voluta come ospite per raccontare la guerra contro i fondamentalisti che lei ha vissuto in prima persona. Una guerra che ha causato più di dodici mila vittime e di cui non si parla quasi mai.

Il problema è di tutti

Ovunque in Europa si è assistito a processi, arresti e limitazioni con le accuse di pericolosità o addirittura di terrorismo a volontarie e volontari che hanno combattuto sul campo contro l’Isis, mentre continuano gli omicidi e le stragi ad opera di jihadisti. Spesso questi non sono volti nuovi all’antiterrorismo. Un esempio tra i tanti è Fejzulai Kujtim, responsabile dell’attentato viennese del 2 novembre, liberato dopo 6 mesi dal carcere dove si trovava per aver tentato di raggiungere la Siria e arruolarsi all’Isis. Altro fatto recente è l’episodio della decapitazione del professore a Parigi, per mano del fratello di una donna che aveva aderito all’Isis. Il pericolo non è chi si espone a viso aperto, chi lotta apertamente per degli ideali di giustizia e di libertà, ma «l’individuo isolato, dissimulatore, che sta chiuso nel suo appartamento e si prepara a uccidere nel nome del fanatismo» e che «di fatto non è considerato socialmente pericoloso», spiega Davide Grasso. Chi non ha paura di combattere contro il fanatismo, le ingiustizie e la violenza, in qualunque contesto, non lo fa per sé, ma per tutte e tutti. E sorge spontaneo pensare alla diversa accoglienza che riceve, a parità di azioni, chi torna camminando e chi torna in una bara.

Chiara Magrone

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