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Cina, la tecnologia della censura

4 ' di lettura

La terra di mezzo agli ultimi posti dell’indice sulla libertà di stampa

La Cina, letteralmente “terra di mezzo”, secondo la classifica 2020 di Reporters Sans Frontières è al 177 esimo posto, la lunga lista, termina al 180 esimo con la Corea del Nord e culmina al primo con la Norvegia , analizza l’indice della libertà di stampa, il grado di libertà di giornalisti e cittadini attivi nell’informazione. Una ricerca da parte dell’organizzazione no profit e no governativa coerente con la sua missione numero uno: il monitoraggio costante degli attacchi alla libertà di informazione a livello mondiale.

Da circa un mese il 2020 è stato malevolmente salutato, ricordato come l’anno della pandemia. Il 21 gennaio di un anno fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara l’emergenza globale per il Coronavirus. Buon compleanno Covid, anche se probabilmente sarai nato un po’ prima.

Cosa c’entra l’indice della libertà di stampa con la pandemia? Nell’era più globale di sempre la diffusione dei contagi è parallela alla diffusione delle informazioni e in Paesi molto connessi ma poco liberi qualcosa non va.

Punto di partenza: Wuhan 30 dicembre 2019

Li Wenliang, medico oculista dell’ospedale di Wuhan, per primo lanciò l’allarme sulla pericolosità della “polmonite misteriosa”. In un gruppo privato di WeChat (App di messaggistica simile a WhatsApp) Li scriveva:” Sette casi confermati di SARS sono stati segnalati -in ospedale- dal mercato di pesce di Wuhan” allegando anche il rapporto di esame del paziente e l’immagine di scansione TC. Aggiungeva più tardi:” Secondo le ultime notizie, è stato confermato che si tratta di infezioni da coronavirus”.

Il 3 gennaio 2020, la polizia di Wuhan lo convocò rimproverandolo per aver fatto dei commenti falsi sul web. Rientrato in ospedale contrasse il virus morendo per complicazioni il 7 febbraio. Ad oggi le forze dell’ordine cinese dichiarano di aver aperto un’inchiesta sull’accaduto. Reporter senza frontiere lo definirà come l’informatore eroe.

La diffusione di notizie ha provocato non pochi fastidi alle autorità, la questione diventa torbida nel momento in cui si da voce alla propria opinione, non è un caso la nascita di #tracker_19 lanciato da RSF per monitorare l’impatto di Covid 19 sulla libertà di stampa e offrire raccomandazioni su come difendere il diritto all’informazione.

Recente è il documentario di ITVOutbreak: The Virus That Shook The World; al centro le testimonianze di alcuni medici filmati di nascosto, affermano che la prima regola è stata quella di “non parlare“. Sapevano riguardo la trasmissione uomo a uomo ma hanno dovuto tacere, le cause a livello mondiale sono state molte, quello che importa in queste righe, è la censura. Impedire di dire la verità non riguarda solo i professionisti della comunicazione ma tutti i cittadini che rispondono attivamente agli eventi della società.

Il caso del processo multiplo

Il 28 dicembre 2020 la Cina condanna a 4 anni di carcere Zhang Zhan, citizen-journalist. La donna accusata dal tribunale di Shangai per aver “raccolto litigi e provocato problemi” durante l’inizio della pandemia quando si parlava di “polmonite misteriosa”. I video di Zhang diffusi nei social hanno raccontato la superficialità del governo comunista, le lunghe file negli ospedali e le minacce rivolte ai cittadini che reclamavano le ceneri dei cari defunti. A febbraio scriveva: “Il governo non ha fornito alla gente informazioni sufficienti, quindi ha semplicemente bloccato la città. Questa è una grande violazione dei diritti umani”.

Insieme a lei sono processati Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua. I quattro sono accumunati dalla brama di verità, nei video su you tube Chen Oiushi affermava: “I will use my camera to document what is really happening. I promise I won’t… cover up the truth” mentre raccontava la città infetta conosceva già le gravi conseguenze.

L’hashtag nemico del Comunismo non è solo Wuhan, si pensi a Du Bin -ad esempio- giornalista, film maker e fotografo del New York Times. L’accusa resta sempre quella di provocare disordini, la vicenda di Bin risale al 2013 quando il giornalista girerà un documentario dal titolo Above the Ghosts’ Head: The Women of Masanjia Labour Camp in seguito pubblicherà – Tian’anmen massacre, il massacro di piazza Tienanmen conosciuto come il massacro di Pechino del 1989; i manifestanti chiedevano libertà di parola e di stampa oltre che conteste alle riforme economiche, una critica al comunismo completata con un successivo libro intitolato History of Communism and China’s Communist Party.

Repressioni anche per i reporter stranieri

Il lavoro dei giornalisti reporter in Cina è continuamente ostacolato, diverse sono le testimonianze, da Haze Fan, reporter di Boomberg News ai giornalisti australiani Bill Birtles – corrispondente corrispondente da Pechino dell’Australian Broadcasting Corporation (Abc)- e Michael Smith dell’Australian Financial Review (Afr), ai due era stato vietato lasciare il paese, ritenute “persone di interesse” in merito all’indagine su Cheng Lei, giornalista australiana nata in Cina arrestata lo scorso settembre, un funzionario del governo ha dichiarato che Cheng era “sospettata di svolgere attività criminali che mettevano a rischio la sicurezza nazionale cinese”. Nessun ulteriore dettaglio, la Federazione Internazionale dei Giornalisti ha ritenuto la sua detenzione “senza causa o ragione” e di conseguenza “molto preoccupante”.

Stessa situazione del 2004 quando le autorità cinesi vietarono ai giornalisti esteri di recarsi nelle province colpite dall’epidemia di influenza aviaria.

Le condizioni di chi sceglie di informare e guardare alla voce e al testo come ad un’azione nel contesto sociale sono faticose. I rapporti di RSF in questo senso fanno luce; sono 100 i giornalisti e i blogger detenuti in pessime condizioni, Liu Xiobo, premio Nobel per la pace e vincitore del Rsf press freedome Prime e Yang Tanggan sono morti nel 2017 a causa di tumori non trattati durante la detenzione.

La questione del Tracking via app

Stando alla superfice dell’invenzione tecnologica, l’app si è mostrata utile. Un’apparente imitazione è l’app Immuni ma l’Occidente è ancora troppo lontano dall’ingegno cinese. L’applicazione ha lo scopo di monitorare i contagi e gli spostamenti dei singoli; le persone compileranno un rapido sondaggio sanitario, il software consegnerà un codice che potrà essere verde, giallo o rosso necessario per gli spostamenti. Un’idea sensazionale che però strizza l’occhio all’ossessiva mania di controllo dello Stato Cinese. Il covid è stato il buon pretesto per testare quello che sarebbe diventato il Sistema dei crediti Sociali. Aspramente criticato dalla democrazia occidentale e paragonato al grande fratello di George Orwell. Di cosa si tratta?

Il Sistema dei Crediti Sociali è la conseguenza dell’imponente sviluppo tecnologico in Cina, è il modo per classificare i suoi abitanti sorvegliandoli. Ogni cittadino dispone di punteggi ma ogni qual volta si commetterà un’azione sociale sbagliata verranno sottratti; attraversare con il rosso, gettare una carta per terra.. L’azzeramento dei punti comporterà sanzioni come, ad esempio, l’umiliazione pubblica; volti proiettati nella città con la spiegazione della colpa oppure divieto di acquistare beni di lusso, per la Cina sono considerati tali anche i biglietti aerei e i treni ad alta velocità. I punti possono essere recuperati attraverso attività benevole come testimoniare a favore di una delinquenza o partecipare ad attività di volontariato. Sistema previsto anche per le aziende allo scopo di monitorarne l’eventuale corruzione.

La formazione morale dell’individuo

Sorvegliare il cittadino, bloccare il lavoro di chi cerca la verità e assicurare la sicurezza istituendo un esercito sono azioni che mirano ad un principio morale. Il Partito Comunista è attento alla tradizione confuciana dove la funzione dello Stato non è solo quella di implementare leggi ma essere formatore morale per l’individuo. Tutto ciò che tenta a scombussolare la società è punibile.

La Cina pretende disciplina e ordine, come quando nascondiamo, in un salotto prestigioso, la polvere sotto al tappeto.

Giorgia Persico

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