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Noi: personaggi reali di Smetto quando voglio.

6 ' di lettura

Bauman diceva che siamo figli della modernità liquida: un periodo intramontabile in cui le certezze e i punti fermi del passato non valgono più. Tutti i cardini che avevano caratterizzato le società precedenti e che davano un senso di sicurezza oggi si sono sgretolati e ridotti in cenere. Questo fenomeno è presente ovunque, dalla religione all’economia. Siamo immersi in una crisi non più temporanea ma stabile. Una sorta di crisi nella crisi.

Tale realtà colpisce anche il mondo del lavoro. Pensiamo al film Smetto quando voglio, la cui trama è incentrata su un gruppo di brillanti ricercatori universitari che tentano di uscire dall’impasse lavorativa ed esistenziale della precarietà cronica producendo e spacciando smart drugs. Inizialmente pensiamo che sia un film ironico che affronta la realtà in modo stereotipato. Andando però ad analizzare meglio i fatti, scopriamo che forse il distacco percepito rispetto alla nostra quotidianità è solo illusorio. Per quanto il film ritragga tutto con toni esagerati, il lungometraggio è un ritratto ad hoc della società e della condizione in cui ci troviamo. Emblematica è la scena del colloquio di lavoro di Andrea, un antropologo in cerca di un impiego presso uno sfasciacarrozze[1]. Nella clip si vede che l’appuntamento non va bene perché il capo accetta solo non-laureati e Andrea, dopo aver utilizzato dei tecnicismi specifici, viene scoperto uno studioso.
Un perfetto esempio di umorismo pirandelliano. Per quanto infatti la tecnica narrativa di Smetto quando voglio adotti volutamente un tono eccentrico e da film, la trama si basa sulla condizione in cui vivono molte persone. I protagonisti difatti per essere indipendenti economicamente si trovano costretti, a causa dei tagli dei fondi e dei posti di lavoro, a trovare occupazioni inadeguate rispetto alle loro qualifiche.

Tale status ritrae molto dettagliatamente la società odierna, nella quale il precariato e lo sfruttamento fanno da padroni. Una forma per esercitare legalmente questi abusi è il tirocinio extra-curriculare. Ma procediamo per gradi. Innanzitutto il tirocinio è un periodo di orientamento al lavoro e di formazione che non prevede la presenza di un contratto, ma di una convenzione tra l’ente ospitante (impresa, soggetto pubblico, studio professionale, eccetera) e l’ente promotore (scuola, università, centro per l’impiego, agenzia per il lavoro)[2]. Non esistendo un contratto, la persona in questione non gode né di una tutela legale (fatta eccezione per la copertura contro gli infortuni e per responsabilità per danni verso terzi) né di una vera retribuzione. I tirocinanti difatti sono ricompensati solo con un’indennità minima superiore ai 300€, la cui quota è però definita da regione a regione. Non sono previsti contributi e quindi non si ha neanche diritto alla disoccupazione. I mesi, e gli anni, investiti in tale forma di collaborazione risultano quindi un vuoto contributivo e la conseguenza è quella di ritardare anche la pensione. Infine, una simile soluzione non permette al tirocinante di diventare economicamente indipendente.
È doveroso comunque dire che non tutti i tirocini sono nocivi. Di fatto, quelli curriculari sono molto utili per la formazione e il perfezionamento della propria professionalità. Tanto che molti giovani sono disposti a dedicare tempo per pochi euro in cambio di un percorso di apprendimento che potrà portarli al rafforzamento delle loro conoscenze e delle loro capacità. E anche una parte degli extra-curriculari termina davvero con un’assunzione presso l’azienda ospitante o una nuova realtà con un curriculum ottimizzato.
Purtroppo però in alcuni casi il tirocinio è visto solo come un periodo di prova a basso prezzo. L’economicità di tale soluzione rispetto ad altre forme lavorative, ad esempio l’apprendistato (che invece offre un salario e garanzie maggiori), risulta più appetibile agli occhi delle aziende. In più, c’è anche da considerare la mancanza di tutela riguardante la fascia temporale per l’attuazione del tirocinio. Se infatti fino ai primi mesi del 2017 la durata massima prevista dalle linee guida approvate dalla Conferenza Stato-Regioni era di 6 mesi, le nuove direttive approvate il 25 maggio 2017 e pian piano recepite dalle regioni spostano il limite a 12 mesi. Di conseguenza un candidato potrebbe rischiare anche di essere tirocinante per 2anni consecutivi. Tanto che sono meno della maggioranza i casi in cui le persone vengono assunte in azienda dopo 6mesi dalla conclusione del periodo formativo. Come se tutto ciò non bastasse, è inoltre sempre presente il rischio di non-formatività dei tirocini. Difatti, tramite il piano Garanzia Giovani, sono state offerte cariche di segreteria, addetti alle pulizie, manovali, magazzinieri o operai in imprese metalmeccaniche con la scusa di tale formula. Lavori che non giustificano la lunga durata di questo particolare accordo lavorativo. Siamo dunque davanti ad un fenomeno che potrebbe sfociare in un vero e proprio periodo di sfruttamento.

Essendo questo lo status delle cose, perché non si è avuta una ribellione sociale? Sono ovviamente molti i motivi. Un fattore che incide abbastanza è che di solito non si collegano i punti critici della società a condizioni appartenti a persone in carne ed ossa. Ci si sente sempre abbastanza tutelati, se non si conoscono soggetti colpiti. Il dibattito rimane sempre un po’ teorico. Purtroppo però la cruda verità è che la questione lavorativa è reale e crea situazioni di forte incertezza e disagio in tutta la nazione. Per testimoniare il lato umano della vicenda (e remare contro questo infausto schema mentale) ho intervistato G., 32enne del Centro Italia laureatosi in tempo con 110L e sottoposto al degradante abuso dei tirocini extra-curriculari. Questa è anche la sua storia.

Cosa ne pensi dei tirocini?
Il tirocinio curriculare, come anche quello extra-curriculare, è un mezzo valido per far entrare le persone nel mondo del lavoro. Il problema è che 1. Viene usato in maniera impropria, perché ho visto anche tantissimi annunci come tirocinante all’interno di un negozio o di un magazzino. Qualsiasi sorta di lavoro in cui basta un mese di prova per imparare essenzialmente. Soprattutto a gente laureata non si può proporre un tirocinio in ambito completamente diverso da quello in cui ci si è formati. E più in generale non si può offrire un periodo di prova di 6mesi per imparare a fare ad esempio il magazziniere. Non è una cosa possibile. Il tirocinio è un mezzo efficace se usato in maniera propria. Anche l’azienda deve dimostrare di avere i mezzi per poter assumere un ragazzo alla fine di questo percorso. Non può utilizzarlo solo perché ha bisogno di una persona per 6mesi o per 1anno e poi si vedrà. Non è giusto. 2. Si devono mettere dei limiti sia per numero di tirocini svolti, sia e soprattutto di età. Io a 32anni mi sono ritrovato per l’ennesima volta tirocinante. E ho visto anche gente più grande di me, con affitti e magari anche con figli, dover fare i tirocinanti per poi correre il rischio di essere nuovamente senza lavoro. Dal momento in cui uno supera i 30 o i 35 anni non dovrebbe essere più possibile attivare un tirocinio. E l’azienda dovrebbe essere forzata, quanto meno, a fare un contratto di prova o uno di breve durata. Altra cosa che mi viene in mente: ci dovrebbe essere una sorta di organo di controllo per queste forme di collaborazione. Nel senso che se un’azienda ha preso un tirocinante e non l’ha assunto una volta e poi ripete questo procedimento una seconda volta, l’azienda fino a che non assumerà gente a tempo determinato o indeterminato non avrà più la possibilità di attivare dei tirocini. Perché non si può andare avanti così. Non è che i giovani d’oggi sono rimbambiti, che vogliono stare a casa con mamma e papà fino a 40anni. I giovani d’oggi fanno difficoltà ad andarsene di casa proprio perché ci sono queste formule di lavoro scandalose. Sono degli sfruttamenti veri e propri. E sono tutelati anche dalla legge. Purtroppo è capitato a tanta gente di non essere assunti dall’azienda, una volta finito il periodo da tirocinante. Tante imprese fanno questi annunci per tirocinanti proprio perché sanno che gli servirà una persona per 6 mesi o per 1 anno a tempo limitato. E lo usano solo come sostituzione di un contratto a tempo determinato, visto che in quest’ultimo caso il datore di lavoro ha anche degli obblighi verso il lavoratore. Usando invece la formula del tirocinio il datore di lavoro non ha nessuna responsabilità e tante volte deve garantire una quota irrisoria al tirocinante, che poi si ritrova a fare otto ore di lavoro come ogni altro impiegato senza avere una giusta retribuzione e una qualche salvaguardia.

Qual è stata la tua esperienza con i tirocini?
La mia esperienza personale è proprio questa. Io avevo un lavoro a tempo indeterminato, dopo aver fatto un famoso tirocinio. Poi mi è arrivata un’offerta di lavoro come tirocinante in un’altra azienda molto affermata nel mio campo, e in espansione, che lavora su tutto il territorio nazionale. Pensando di fare la cosa giusta, e lo penso tutt’ora, decisi di abbandonare il posto a tempo indeterminato. Inizialmente mi sono opposto alla formula del tirocinio, ma non c’erano altre opzioni. Quindi la scelta era o rischiare per poi avere la soddisfazione di trovare un lavoro che mi piacesse e soprattutto riguardante il mio campo di studi, oppure tenermi il posto fisso con la possibilità in futuro di ritrovarmi a pensare che forse la questione sarebbe potuta andare diversamente. Che forse accettando quel tirocinio sarei stato più felice, più realizzato, con la possibilità di diventare anche più bravo nel mio lavoro. Perciò ho deciso di accettare. Più in là però, con la pandemia del Covid-19, i tirocinanti sono stati subito bloccati dalla regione e mi sono trovato per due mesi senza stipendio. Quando successivamente la regione ha riaperto, visto che il virus ha provocato un calo del lavoro drastico, l’azienda mi ha detto di non poter riprendermi a lavorare. Quindi la mia esperienza da tirocinante si è conclusa senza che io abbia praticamente finito il tirocinio o abbia avuto una benché minima possibilità di essere assunto. Di fatto, mi ritrovo ad aver lasciato un tempo indeterminato. E non sono neanche più un tirocinante. Da che pensavo di aver trovato magari un lavoro che potesse fare per me e che mi potesse dare i mezzi per mettere basi, per prendere una casa mia e per magari pensare a mettere su famiglia, ora mi ritrovo di nuovo punto e a capo a cercare lavoro. In tasca non ho un soldo bucato, un’ora di contributo versato o un giorno di disoccupazione. Non è giusto.

Tutto ciò ritrae una condizione sociale che mi fa accattonare la pelle. Non so se è perché chi sta testimoniando i suoi problemi lavorativi è un 110e lode, o se perché sono alla specialistica e sto facendo del mio meglio per un futuro che magari non esiste. Ma ho il forte timore che anche io sarò costretta per necessità a cercare un lavoro che non rispecchia i miei interessi.
Del resto, alla fine, siamo un po’ tutti l’Andrea del Smetto quando voglio. E amen al pezzo di carta impregnato dei sudori delle nostre notti bianche intrise di studio.
Mi viene in mente solo un’unica parola finale da dire, per racchiudere il tutto. Peccato però che non si possa pronunciare.


[1] https://www.youtube.com/watch?v=vownD0ytk84

[2] https://www.open.online/2019/01/26/italia-paese-di-tirocinanti-un-viaggio-tra-sfruttamento-e-casi-virtuosi/

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