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Sofia D’Arrigo
Ho avuto un autunno e un inverno pazzeschi a Parma e – mannaggia- non aspettavo altro che la primavera.
A Parma avevo ritrovato quattro stagioni e una stanza con gli scaffali da riempire da zero.
Certo, se un carabiniere suona alla mia porta, è solo per chiedermi le generalità, mica per consegnarmi l’urna con le ceneri di un prossimo.
In un solo giorno di marzo a Parma questo è successo 47 volte.
A Finale, al massimo, osservo dalla finestra chi la mascherina se la pioggia sulla testa o la abbassa sotto il naso.
Ma la morte ha fatto capolino anche qui, anche dentro ciascuno di noi e si è portata via qualcosa.
A me ha tolto tutte le opportunità che mi ero conquistata a fatica prima di poter fare quella valigia.
Mi ha tolto uno, due forse tre sogni a breve termine.
Mi ha tolto il sottile imbarazzo che stavamo imparando a smorzare tra noi, perché averne 25 o 60 non fa differenza: i legami sono come la trama del disegno di un lenzuolo, prendono forma solo alla fine ma restano delicati fin dall’inizio.
Mi ha tolto la noia di una lezione soporifera in cambio di uno sterile pdf.
Ma la noia almeno, includeva la possibilità di compiere il gesto rivoluzionario di alzarsi dalla sedia nel bel mezzo della predica e lasciare l’Aula.
Essere generativi in un tempo di morte però, non è impossibile.
Passa da tools e connessioni scadenti, da calze indossate per accendere la brace, dallo sforzo di dare forma ai volti importanti nella mia mente senza l’ausilio made in China di uno schermo.
E nella mia testa, siete il più bel fermo immagine.
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