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Ragioniamo lucidamente su Jon Kent, il “Superman bisessuale”

4 ' di lettura

Qualche tempo fa, la notizia del nuovo orientamento sessuale di Superman ha fatto il giro del Web, suscitando polemiche, discussioni e clamore. Ora che sono passati diversi giorni e che il polverone si è abbassato, però, cerchiamo di capire cos’è successo davvero con il “Superman bisessuale”. Soprattutto, considerando cos’è successo ieri in Senato con il DDL Zan, cerchiamo di capire perché non c’è niente di strano.

Chi è Jon Kent?

La nascita di questo personaggio sulle pagine dei fumetti è piuttosto recente (2015), e la sua storia è troppo complicata per essere riassunta brevemente – c’entrano universi paralleli, Superman più giovani e più vecchi, vulcani, tempo che scorre diversamente e tutte le altre cose assurde da fumetto DC Comics.

Jon Kent, attualmente, è un giovane adulto che sta scoprendo il suo posto nel mondo; in quest’ottica, è normale che fra le altre cose capisca meglio anche se stesso, la sua sessualità, il suo orientamento. La cosa strana – o meglio, sbagliata – è la valanga di titoli acchiappa-like che nei giorni scorsi hanno parlato solo di Superman, e non di Jon. Certo, anche Jon è Superman, ma non quel Superman – cioè il bisteccone dai lineamenti perfetti che tutti conosciamo.

Una tavola da “Superman – Figlio di Kal-El”, la serie con protagonista Jon Kent

Sbagliata è anche la decisione della casa editrice DC Comics di rivelare il coming out prima dell’uscita della storia. I malpensanti potrebbero chiedersi se non sia solo una trovata pubblicitaria per suscitare clamore e vendere il fumetto; del resto, in passato ci sono stati molti personaggi con vari orientamenti sessuali – l’Uomo Ghiaccio, per dirne uno –, quindi perché toccare proprio l’iconico Superman? Se così fosse, le persone bisessuali potrebbero – dovrebbero? – sentirsi usate e non normalizzate.

Da un lato – sia che si tratti di Clark, sia che si tratti di Jon – “smorzare” l’aura di mascolinità stereotipata che il personaggio ha sempre avuto può solo far bene; d’altro canto, però, era palese che i titoli clickbait avrebbero fatto parlare di loro, sollevando il passaparola furioso di Internet. La vera domanda è: si tratta della solita “accusa di politicamente corretto a ogni costo”, oppure è una scelta narrativa sensata che non dovrebbe stupire affatto?

Il grande romanzo americano

È questa la definizione con cui molto spesso viene indicato l’intero corpus fumettistico della Marvel Comics. Per capire come siamo arrivati a Jon Kent, infatti, dobbiamo partire proprio da qui.

Nel novembre del 1961, su Fantastic Four 1, esordì un gruppo di supereroi che avrebbe presto conquistato il pubblico: come dice il nome stesso, si trattava di Mr. Fantastic, della Donna Invisibile, della Torcia Umana e della Cosa. Questo quartetto, seguito in quell’anno e in quelli immediatamente successivi da altri personaggi ormai iconici – Spiderman, Hulk e Thor nel ’62, Iron Man nel ’63 –, sancì il successo della casa editrice, proiettandola in testa alle classifiche delle vendite.

Il segreto dei fumetti Marvel della cosiddetta Silver Agedagli anni ’50 all’inizio dei ’70 – risiedeva nella formula “supereroi con super-problemi”. I Fantastici 4, per esempio, non erano solo un gruppo di supereroi: Mr. Fantastic e la Donna Invisibile erano marito e moglie; la Torcia Umana era il fratello della Donna Invisibile; la Cosa era il miglior amico di Mr. Fantastic. Le loro avventure, quindi – oltre a vederli combattere nemici improbabili come l’Uomo Talpa o temibili come il Dr. Destino –, vertevano spesso sulle dinamiche familiari da soap opera, fra disguidi, litigi e tormenti.

Una copertina dei Fantastici 4 di Jack Kirby, co-creatore dei personaggi insieme a Stan Lee

I supereroi Marvel, dietro la maschera, erano persone comuni – uomini e donne di tutti i giorni –, e questo fece immedesimare immediatamente il pubblico. Peter Parker, per esempio, non solo difendeva New York da Goblin e l’Uomo Sabbia, ma doveva anche vedersela con i compagni di scuola che lo tormentavano, con la ragazza che gli piaceva, con la necessità di trovare un lavoro per aiutare la zia. Inoltre, a differenza dei fumetti DC – ambientati in città di fantasia come Metropolis o Gotham –, le storie Marvel sceglievano città reali – New York su tutte.

Alan Moore e la decostruzione del supereroe

Nel 1986, in tutte le fumetterie d’America, fece la sua comparsa una storia che avrebbe cambiato per sempre il modo di vedere i supereroi. Si trattava, ovviamente, del primo numero di Watchmen, scritto da Alan Moore e disegnato da Dave Gibbons.

Moore – che in tanti sarebbero pronti a definire il più grande autore vivente di fumetti – capì che il supereroe era ormai diventato una figura archetipica. Dagli anni ’30 e ’40 – da quando, cioè, videro la luce Superman e Capitan America –, il fumetto supereroistico aveva conosciuto una parabola meravigliosa di vendite e storie, diventando spesso metafora per la realtà americana.

Capitan America, per esempio, aveva combattuto i nazisti difendendo “gli ideali americani di giustizia e libertà”, poi arrivarono gli anni ’70 e lo scandalo Watergate – nel ciclo Impero Segreto, Englehart usa Nixon come cattivo principale –, così Steve Rogers decise di abbandonare uno scudo che non sentiva più suo. Spiderman se la vide con la droga e coi reduci del Vietnam; i primi eroi afroamericani raccontavano cosa significava essere neri in America; si parlava di emancipazione femminile. Il fumetto supereroistico, in quest’ottica, è davvero il “grande romanzo americano”, perché ha affrontato le contemporaneità declinandole in storie di fantasia – e lo ha fatto con protagonisti umani e fragili, dotati di poteri, ma fallibili.

Quando Alan Moore cominciò a scrivere Watchmen, la figura del supereroe faceva ormai parte della cultura narrativa americana da diverso tempo. Il fumettista inglese – forse solo un non-americano poteva vedere le cose da un certo punto di vista – decise di prendere questa icona e smontarla pezzo dopo pezzo, per capire cosa significava davvero “essere un supereroe”.

I protagonisti di “Watchmen”

La frase chiave di Watchmen – “chi controlla i controllori?” – è un verso di Giovenale. Il fumetto parte proprio da qui, e la base è piuttosto semplice: cosa implica eticamente, moralmente e umanamente essere un supereroe? Perché i superumani non dovrebbero elevarsi sopra gli altri? Watchmen, insomma, è una metafora del potere e di come corrompe le persone; una metanarrazione supereroistica dove questi personaggi vengono smontati e rimontati in mille sfaccettature, ricreando infine l’essenza ultima di questa figura narrativa squisitamente americana.

I supereroi oggi e Superman bisessuale

Dopo Moore e la Marvel del “grande romanzo americano”, il supereroe era stato girato e rigirato in mille modi – e da allora non fece altro che “peggiorare”. Gli autori successivi a Moore, infatti, cominciarono a decostruire questo o quello, scrivendo cicli e storie che riflettevano sul supereroe come figura narrativa: Crisi d’identità di Brad Meltzer si interroga sul motivo per cui i supereroi hanno bisogno delle identità segrete; The Boys di Garth Ennis presenta un mondo in cui i supereroi sono dei bastardi senza freni, divinità che grazie ai loro poteri non devono rendere conto a nessuno se non ai contratti per sponsorizzazioni e film; in Miracelman, infine, il solito Moore racconta l’ascesa di un supereroe dai poteri divini che prende in mano le redini del mondo.

I fumetti supereroistici si sono sempre occupati di raccontare il mondo e la società – per come sono o per come vorremmo che fossero –, e ormai le questioni di genere, orientamento sessuale e parità sono dibattute ogni giorno, anche se alcuni fanno finta di non vederlo. La Marvel stessa, come detto, ha sensibilizzato sul Vietnam, ha criticato il presidente e ha parlato di discriminazione razziale. Considerando il supereroe come “figura archetipica da smontare e rimontare” – e considerando la realtà di oggi –, è davvero così strano vedere un Superman bisessuale? Oppure certe persone sono cieche difronte al mondo che le circonda?

Alessandro Mambelli

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