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Ex-Ilva, grigio acciaio: la storia infinita di una città sacrificata (Parte 3)

7 ' di lettura

Dal 2012, anno in cui il caso ex-ILVA è stato dichiarato disastro ambientale da gestire – qui abbiamo raccontato come disastro ambientale sia da più di quaranta anni – il valore di un immobile nei pressi della fabbrica e nel quartiere Tamburi, è calato bruscamente. I due grafici di seguito esplorano il crollo del valore immobiliare, passando dai quasi 1150 euro al metro quadro, che ancora oggi è il valore immobiliare in qualsiasi altra zona di Taranto, a meno di 700 euro al metro quadro nel 2021.

In trappola

Se nasci nel quartiere Tamburi, nella zona adiacente alla fabbrica, non c’è modo di liberartene. Oggi, chi possiede lì una casa dal valore di 650-700 euro al metro quadro non riesce ad andare via, poiché difficilmente, pur cambiando regione, potrà comprare una nuova casa con il ricavo della vecchia abitazione. Ammesso di riuscire a vendere la propria. Perché le case nel quartiere Tamburi non le compra nessuno, nemmeno a prezzi stracciati. Scrollando rapidamente gli annunci di vendita della zona, abbiamo trovato un immobile da 150 mq, con cinque stanze e due bagni a 60 mila euro. Senza considerare la negoziazione. In altre parole, le case andrebbero quasi regalate, ma gli annunci restano appesi, perché nessuno vuole finire nella bocca del braciere. Chi vive nel quartiere Tamburi resta così intrappolato, da una parte la fornace velenosa, dall’altra la strada sbarrata verso qualsiasi altra possibilità di vita. Non è l’unica contraddizione che attanaglia Rione Tamburi, popolare per definizione. Eppure esisteva anche prima dell’insediamento delle ciminiere. Nella Taranto presiderurgica era il luogo in cui venire a prendere fresco dal centro, verso la foresta che ricopriva la collina. Da quartiere residenziale si è trasformato inesorabilmente in luogo altamente esposto all’inquinamento dell’industria di base novecentesca, cambiandone radicalmente il volto.

Impianti di filtraggio nelle scuole non funzionanti

Nelle scuole, per fronteggiare il rischio delle polveri velenose che alzandosi la gente respira, sono state installate in ogni classe dispositivi di filtraggio polveri e ventilazione, da far funzionare a pieno regime soprattutto durante i Wind days, i giorni in cui il vento soffia dal mare, aumentando vertiginosamente la presenza di microorganismi nocivi nell’aria. Ad oggi, non solo non funzionano, ma non sono neanche mai stati collaudati.  Sono costati 3.430.793,78 euro. Si trovano nelle scuole “Deledda”, “Vico”, “De Carolis”, “Giusti”, “Gabelli”, e risultano “non collaudate, con una data di installazione risalente a più di due anni fa”. Proprio nel 2018 prendeva avvio la gara d’appalto dal comune di Taranto per permettere l’installazione di apparecchi di ventilazione meccanica. Durante la requisitoria del processo in corso “Ambiente Svenduto”, lo stesso PM Buccoliero era intervenuto in merito alla questione definendo l’istituto Deledda “scuola della morte”. “Questo tipo di impianto dovrebbe essere posto distante dalle abitazioni – sostiene Annamaria Moschetti, pediatra e attivista di Taranto – Una delle cause del disastro sanitario fu proprio la scelta di porre un’industria insalubre di prima classe a ridosso del centro abitato”.

Fonte: Flikr

La questione lavorativa

Ex-Ilva è anche fonte di lavoro per diecimila dipendenti, tra quelli della fabbrica e quelli dell’indotto. Ecco il ritornello frequente attorno alla questione lavorativa, ma si tratta di un livello solo superficiale di analisi. Se c’è una “questione” è perché qualche diritto di fondo non è garantito. I lavoratori del comparto ex-Ilva sono protagonisti di annose e plurime problematiche che hanno per origine il sistema siderurgico. Hanno progressivamente assunto la consapevolezza che dal lavoro di cui sono titolari dipende tanto la loro dignità quanto svariati crimini ambientali. Sanno inoltre, di correre il rischio di ammalarsi più di altri. Fino al 2006, la fabbrica ha rappresentato il bacino lavorativo più significativo per il territorio di Taranto e della provincia, arrivando a reclutare circa venti lavoratori alla settimana.

Uno degli obiettivi dell’ex dirigente Riva però, era garantirsi la mansuetudine dei dipendenti, al fine di riuscire a sottrarsi al miglioramento della struttura in termini di ripercussioni ambientali e di sicurezza, cui sarebbero stati obbligati da una vigilanza sindacale interna. Angelo Cogotzi, ex lavoratore dello stabilimento e studioso dei fenomeni di smaltimento illegale spiega che tra gli anni ’90 e il 2000 sono aumentati sempre più gli impianti dello stabilimento. “Questo ha portato ad una grande mole produttiva di materiali solidi inquinanti da smaltire – racconta – Abbiamo scoperto delle caverne sotto le vie di corsa delle gru. Sono stati trovati dei pozzi artesiani dove venivano scaricati quantità enormi di acido cloridrico che andavano a corrodere le rocce sottostanti facendo cedere le gru e i rispettivi binari. Per quello che ci risulta c’erano una ottantina di pozzi artesiani”.

Per dissolvere l’ombra di una crisi interna con i dipendenti, tra il 1997 e il 2003 la proprietà incoraggia i lavoratori più anziani ad uscire dalla fabbrica, grazie ai prepensionamenti. Ci furono massicce assunzioni di giovani con contratti di formazione lavoro e una “nuova” strategia nella gestione dei rapporti: i nuovi dipendenti subivano una sorta di ricatto occupazionale. Non potevano iscriversi al sindacato o prendere parte alle assemblee. “Non che te lo dicessero ufficialmente, però insomma lo capivi presto – racconta Franco Rizzo, sindacalista USB nell’Ilva – Io ero uno di quelli che all’epoca del contratto formazione lavoro chiese informazioni sul sindacato. Il sindacalista che avevo nel mio reparto mi disse “No, ma che sei matto, così ti licenziano”. Il clima era questo: la pressione era tale che anche chi rappresentava i lavoratori sapeva di essere limitato nelle proprie funzioni di rappresentanza”. A sottomettere la nuova classe operaia ci riuscirono solo in parte, perché la consapevolezza verso i disastri dell’amministrazione era crescente. “Il problema è che i lavoratori dell’Ilva, dall’epoca dei Riva ad Arcelor Mittal vengono ricattati – continua Rizzo – Ogni giorno, pur conoscendo le condizioni sono obbligati a scegliere tra la salute e il lavoro, se vogliono portare avanti la famiglia. Non dovrebbe essere così in un Paese normale”.

Che fine fa così il ruolo del sindacato di salvaguarda del lavoro e tutela dei diritti, come Costituzione vuole? Risulta evidente nella storia di Ex-Ilva quanto la rappresentanza sia entrata in conflitto con i temi del diritto, alla salute o dignità dei lavoratori. “Sì, entra in contrasto nel momento in cui la politica non ottempera a quelli che sono i suoi obblighi – ne è convinto Rizzo – Nello specifico, il nostro modello sindacale è di natura sociale, mira alla vita come bene primario e al lavoro come un diritto. Il compito della politica in questi anni doveva essere quello di rompere l’eterno ricatto: o lavori in queste condizioni o sei disoccupato. Il problema non è il sindacato, è quello che la politica non ha fatto e continua a non fare”.

Operai al lavoro nello stabilimento Ilva durante la gestione Italsider (Flikr)

La crisi dell’acciaio

La crisi dell’acciaio, che nel 2008 ha visto un drastico calo della domanda per l’anno successivo, ha spinto immediatamente la famiglia Riva a correre ai ripari, mettendo in cassa integrazione oltre tremila dipendenti in servizio nei reparti convertitore, acciaieria, altoforno, cokeria, impianti marittimi e manutenzioni centrali. Era solo l’inizio di un dramma lavorativo di dimensioni importanti, esploso con il sequestro della struttura nel 2012. Nonostante durante la gestione commissariale, ovvero dal 2014 al 2018, i dipendenti in CIG abbiano continuato a ricevere regolarmente lo stipendio, la situazione è cambiata con l’arrivo di Arcelor Mittal.

Se già nell’accordo con il governo si parlava esplicitamente di “selezione” al ribasso dei dipendenti, il piano industriale presentato dalla multinazionale indiana prevedeva, oltre alla richiesta di un massiccio ricorso allo strumento della cassa integrazione, l’esubero immediato di circa 5000 lavoratori: la proposta fu bollata come “irricevibile” dal governo italiano. Il nuovo piano industriale di Arcelor Mittal, risalente a giugno 2020 rimodulava gli esuberi, pur mantenendo invariata la sostanza. Il numero rimane fermo a cinquemila ma di questi, per rispettare l’accordo del 2018 tra il Governo e la fabbrica, 1800 sarebbero stati impegnati nelle operazioni di bonifica delle aree interne al siderurgico rimaste in capo ai commissari straordinari. Questi lavoratori sono stati spostati nella S.p.A. Ilva in AS (dove la sigla rappresenta l’acronimo di Amministrazione Straordinaria, procedura messa in atto per cercare di salvare le aziende dal fallimento). Secondo lo stesso accordo, dovrebbero ricevere un’offerta di lavoro da Arcelor Mittal entro il 2023, data fino alla quale resteranno destinati all’impiego nella bonifica, pur non avendo ricevuto corsi di formazione ad hoc.

I sindacati e una via di scampo

A questo clima di incertezza, si aggiungono le denunce di alcuni delegati della Fiom, che sono stati sospesi e sarebbero stati minacciati di licenziamento da parte dei responsabili di AM per i loro esposti agli enti ispettivi sulle questioni che riguardano la sicurezza dell’impianto. La situazione quindi, ad oggi, vede circa 5000 lavoratori attivi, più 3400 in cassa integrazione. Bastano questi dipendenti? Rizzo ammette: “A pieno regime, per la produzione che si fa, ce ne vorrebbero anche più di 8000, qui però ormai l’idea è “produzione al massimo, personale al minimo”. Questa è l’idea rivoluzionaria di Arcelor Mittal”. Con l’arrivo di Invitalia e del progetto green, quella che si staglia all’orizzonte è una prospettiva ancor più drammatica. Chiudere l’area a caldo significherebbe infatti, lasciare almeno altri cinquemila lavoratori senza alcuna certezza sul futuro occupazionale. Se venissero installati due o più forni elettrici, di tutti i lavoratori degli altiforni, cokerie e dell’area agglomerato ne servirebbero a malapena duemila.

A quel punto, chi parla di insostenibilità dell’Ilva sul mercato, non avrebbe tutti i torti. “Io non ci credo – ammonisce Rizzo – Sono piani fantomatici che già sulla carta non reggono. Non ritengo ci sia la possibilità di investire su una fabbrica compatibile, soprattutto nei tempi indicati, ovvero due anni. Si pensi piuttosto a partire dalle necessità dei lavoratori, con seri incentivi all’esodo per dare la possibilità alle persone di andare via dalla fabbrica, riconoscere la tipologia come lavoro usurante, sia per i lavoratori ex-Ilva, Ilva in AS e quelli dell’appalto. Lavorare in quelle condizioni per 42 anni è impossibile. I dati ci dicono molto chiaramente che chi lavora lì dentro non campa oltre una certa età. Invece, si interviene ogni volta per pagare il debito che la multinazionale fa e così mettere una pezza sul problema, con un enorme spreco di soldi. In dodici anni – solo per la cassa integrazione sono stati spesi 1,5 miliardi di euro“.

Lavoratori Ilva (Flikr: Salvatore Pupino)

Ultimi sviluppi

A seguito della sentenza del Tar del 13 febbraio 2021, che impone entro 60 giorni la chiusura degli impianti, i sindacati confederati Fiom, Fim e Uilm – a dispetto delle rappresentanze di base – hanno chiesto un incontro ai ministri dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, del Lavoro, Andrea Orlando e della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani e dell’Economia e Finanze, Daniele Franco. L’incontro si è svolto il 19 febbraio ed ha aperto alla possibilità dell’ennesima norma salva-Ilva . Il consiglio di Stato ha però accolto il ricorso di Arcelor Mittal, sconfessando così la sentenza del TAR di Lecce: l’Ilva, almeno per il momento, non dovrà spegnere i suoi altoforni entro 60 giorni. Per l’ennesima volta l’acciaio vince sul lavoro, sulla salute e sull’ambiente.

Produzione e protezione

Arrivare ad un punto fermo in quell’abisso ramificato che è la questione Ilva, è difficile. Lo è tanto per noi osservatori esterni, quanto per gli attori coinvolti quotidianamente in questa vicenda, dall’azienda agli attivisti, ai semplici cittadini. “Si è costruito un sistema oppressivo – conclude Angelo Cogotzi – Un’intera città produce per alimentare gli altri, dimenticando di sostenere e ripensare se stessa”. Sono molte le sfaccettature, tutte troppo complesse attorno all’acciaieria: più che ad uno stabilimento siderurgico, sembra di stare davanti ad una rappresentazione plastica delle famose Scale di Escher. Quello che emerge però – da ogni rapporto, studio, telefonata, racconto – è la ferma coerenza di uno dei protagonisti assoluti di Taranto: lo Stato. Si è sempre impegnato in modo unilaterale, trasversalmente e scientemente. Scientemente perché non si può dire che non sapesse, trasversalmente perché in oltre sessant’anni i colori politici si sono alternati quasi tutti. Il senso unico che ha illuminato l’azione politica è quello di prediligere e garantire sempre e comunque la produzione dell’acciaio, anche a dispetto della salvaguardia di vite umane e dei diritti minimi di una città intera. Sacrificare un luogo povero in nome del profitto: Taranto. Spacciare per “simbolo di progresso e riscatto della gente di Puglia” quello che poi in realtà ne ha decretato la morte finale: non tanto l’acciaio, ma la ruggine che il tempo ha formato.

Raffaele Buccolo, Sofia D’Arrigo, Mario Mucedola

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